La Lettura, 17 novembre 2019
Il ritorno del cavallo di Przewalski
«L’ho visto per la prima volta in Francia, sulle montagne, quattro anni fa. Ne fui subito affascinata sia perché è un animale bellissimo sia per la sua storia». Maja Lunde, autrice norvegese di bestseller internazionali ispirati al cambiamento climatico, questa volta si concentra su una specie a rischio di estinzione: il cavallo di Przewalski, dal nome del generale ed esploratore russo che ne scovò alcuni esemplari nell’Ottocento. Criniera ritta, due cromosomi in più, ritratto già nelle pitture rupestri, il mammifero è al centro del nuovo romanzo della scrittrice. «La Lettura» l’ha incontrata poche settimane fa alla fiera del libro di Francoforte, dove la sua Norvegia era Paese ospite d’onore.
Przewalskis hest («Il cavallo di Przewalski», appunto) è di recente uscito in norvegese e in tedesco. In Italia arriverà nell’autunno 2020da Marsilio, come i precedenti romanzi dell’autrice. Lei l’ha presentato alla Buchmesse, dove è arrivata in treno – per scelta ecologista – insieme con la principessa Mette-Marit e un gruppo di altri diciotto scrittori connazionali, tra i quali Erika Fatland e Jostein Gaarder. «Da sempre soffro d’insonnia — confessa Maja Lunde — ma da qualche tempo le mie ansie sono diventate globali: mi sveglio e vedo l’Amazzonia che brucia. Scrivere è anche un modo di convivere con le mie paure» .
È per questo che, dopo «La storia delle api» e «La storia dell’acqua» (entrambi Marsilio), ha dedicato un terzo romanzo al pianeta in pericolo?
«I tre libri sono parte di una tetralogia sul clima, dunque ne arriverà anche un quarto. Quando ho scritto il primo, La storia delle api, sull’importanza degli insetti, pensavo che mi sarei fermata lì. Poi però è come se le altre trame, gli altri personaggi, si fossero affacciati da soli. Così sono nati La storia dell’acqua sull’emergenza idrica e questo nuovo romanzo che mette al centro gli animali in pericolo».
Il cavallo di Przewalski, appunto.
«È il filo conduttore del romanzo. Già nelle pitture preistoriche, si pensava si fosse estinto. Nel 1881 ne furono riscoperti alcuni esemplari in Mongolia, dove la specie è chiamata takhi. Purtroppo questi animali furono a loro volta uccisi dai cacciatori e sembrò di nuovo che li avessimo persi. Finché, dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni cavalli di Przewalski furono rinvenuti in Francia e 13 si riprodussero. Nel 1992 vennero reintrodotti in Mongolia: ora ce ne sono 1.500 nel mondo, 350 liberi nel Paese asiatico. È una delle storie più belle “scritte” dal genere umano: narra di come siamo riusciti a salvare un’altra specie e a rimediare agli errori. Credo che questo sia il mio libro più nero e, insieme, il più luminoso».
Come si intrecciano fiction e realtà?
«Avevo tantissimo materiale storico, così ho scritto un romanzo di oltre 550 pagine! Ho ideato tre vicende che si svolgono su piani temporali diversi e che hanno in comune proprio il cavallo di Przewalski. Un personaggio è Mikhail, vicedirettore di un giardino zoologico: vive in Russia e nel 1881, quando i takhi vengono riscoperti in Mongolia, parte per una spedizione per procurarsene una paio . Poi c’è Karin, veterinaria tedesca che nel 1992 si mette anche lei in viaggio per la Mongolia, ma come responsabile di un progetto per reintrodurre i takhi. Infine c’è Eva, che abita in Norvegia, nel 2064, in una riserva in cui sono rimasti pochi animali, tra cui due cavalli di Przewalski».
Com’è il mondo nel 2064? Quello del 2041 che lei descriveva ne «La storia dell’acqua» era arso dalla siccità.
«Ventitré anni dopo la terra è ormai quasi priva di risorse, non c’è energia elettrica, il cibo scarseggia. Il clima è cambiato drammaticamente: si estinguono animali ed esseri umani. Anche la società è collassata. Ecco perché a Eva e la figlia Sarah, di 14 anni, non resta che mettersi in fuga verso Nord, come stanno facendo altri profughi, in cerca di luoghi ancora ospitali. La madre, tuttavia, non riesce a separarsi dagli amati takhi. In questa vicenda s’inserisce anche un personaggio de La storia dell’acqua, ma non voglio svelare chi...».
L’emergenza ambientale non è un tema facile da affrontare nei romanzi. Una soluzione frequente è la fantascienza. Lei invece, anche quando proietta la trama in avanti, disegna un futuro vicino e realistico.
«Già in 1984 George Orwell immaginava il futuro. Ogni scrittore ha la sua modalità, l’importante è seguire un’urgenza. Io parlo di animali e di clima ma anche, sempre, di genitori e figli, di fame, amore, sessualità, che sono comunque componenti della natura ».
L’impegno di scrittori e personaggi noti è utile a sensibilizzare. Anche Bill Gates ha annunciato un saggio sul clima (in Italia uscirà da La nave di Teseo).
«Tutti dobbiamo fare la nostra parte, ciascuno dal suo punto di vista. Spesso le persone comuni tendono a rifiutare i report scientifici, per paura o perché li sentono come qualcosa di lontano, che non toccherà mai la loro vita. Un romanzo consente di immedesimarsi, lascia intuire che quanto stiamo leggendo può riguardarci. In molti, dopo aver finito La storia dell’acqua, mi hanno detto di avere sete come David, il protagonista».
C’è ancora chi nega la crisi climatica.
«Il cavallo di Przewalski rappresenta per me tutte le altre specie in pericolo, inclusi noi esseri umani, che saremo presto a rischio se non cambiamo i comportamenti. Non credo più nemmeno che chi nega l’emergenza lo faccia per interesse: l’economia collassa se la natura collassa. C’è bisogno di verità. Anche per questo scrivo».
A settembre Donald Trump all’Onu ha ignorato la sedicenne Greta Thunberg, simbolo della lotta al cambiamento climatico, poi ha ironizzato su di lei. Perché?
«Greta, per l’appunto, dice la verità e la verità fa paura. È una grande comunicatrice, parla con una voce che non si può ignorare. Il problema però, come accade anche in Norvegia, è che ci si sofferma su di lei come persona mentre dovremmo concentrarci su che cosa dice».
Con la principessa Mette-Marit siete arrivate a Francoforte in treno. Eppure il vostro Paese è un grande produttore di petrolio.
«La Norvegia è un paradosso. Sono orgogliosa della nostra natura e di un sistema che garantisce uguaglianza, una buona scuola pubblica, il sostegno agli scrittori, che è uno dei motivi per cui la nostra letteratura cresce. D’altra parte, mi imbarazza che non si faccia di più per il clima. Potremmo mostrare al mondo che si può passare dal petrolio all’energia verde. Ma è come se il governo avesse paura di avviare davvero il processo. Anche se qualcosa viene fatto, si avanza troppo lentamente».
Nel suo recente pamphlet sul cambiamento climatico (Guanda), Jonathan Safran Foer invita tutti ad azioni quotidiane per salvare il pianeta. È d’accordo?
«Unendo gli sforzi faremo qualcosa di grande. Io cerco di non muovermi troppo in auto e in aereo, di limitare la carne. E compro l’usato. Il mio cellulare è di seconda mano».
Riusciremo davvero a invertire la rotta?
«L’essere umano è una specie molto adattabile ai cambiamenti e la migliore nel comunicare: questo ci consentirebbe di fermare l’emergenza, se davvero lo volessimo».
Di che cosa parlerà il quarto romanzo della serie climatica?
«Di ciò che cresce: piante e semi, ma anche di suolo, aria: nella natura tutto è connesso».