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 2019  novembre 17 Domenica calendario

Vermi alla riscossa

Nell’ammirare un classico paesaggio campestre in cui la visione di mucche al pascolo si associa al simpatico suono dei loro campanacci, non ci si sofferma di certo a pensare a quanto ammonta la biomassa totale dei vermi che si muovono nel sottosuolo. Se potessimo raggrupparla, risulterebbe pari a circa 1.500 chilogrammi per ettaro, l’equivalente del peso di due mucche. Questo dato rende immediatamente ragione della rilevanza ecologica dei vermi, già messa in rilievo da Charles Darwin nella sua ultima opera La formazione della terra vegetale per l’azione dei lombrici con osservazioni intorno ai loro costumi (uscito nel 1881, tradotto in italiano l’anno dopo con questo titolo), dove illustra in modo anticipatorio e con grande poeticità il ruolo dei vermi nel modellare il paesaggio terrestre. Non manca poi di impiegare la biologia dei vermi, e in particolare lo studio «dei loro costumi», per sostenere la propria teoria dell’evoluzione basata su un incessante lavorio sotterraneo capace di produrre effetti macroscopici.

Il termine verme si riferisce a una composita tipologia di animali per i quali i trattati di zoologia utilizzano specifici nomi: Platelminti (vermi piatti), Nematodi (vermi rotondi), Anellidi (vermi metamerici) sono i gruppi maggiori. Platelminti e Nematodi (con l’eccezione del mitico Caenorhabditis elegans, uno dei modelli animali usati in ricerca) sono gruppi a vita parassitaria. Chi non ha mai contratto la tenia o gli ossiuridi avrà avuto a che fare con i vermi del proprio cane o gatto. Gli Anellidi sono noti a tutti noi, certamente per il comune lombrico (Lumbricus terrestris), la sanguisuga (Hirudo medicinalis, un tempo utilizzata per i salassi dei pazienti) e lo splendido spirografo degli acquari marini (Sabella spallanzanii).
Il termine verme si presta poi a un uso colloquiale e dispregiativo, ciascuno di noi ha un proprio elenco di persone a cui riferirsi, ma questo utilizzo non rende ragione della bellezza di questi animali e della loro rilevanza per gli ecosistemi terrestri: un lombrico, dotato di un canale alimentare lungo quanto l’animale stesso, è in grado di ingurgitare, metabolizzare ed espellere una quantità impressionante di terreno. Non a caso Aristotele li definisce «l’intestino della Terra» e oggi sappiamo che un singolo lombrico è in grado di ingerire in un solo giorno una quantità di terreno trenta volte superiore al suo peso. In questo modo i lombrichi accelerano la decomposizione del materiale organico, rilasciando nel contempo una gran quantità di microelementi utili alla crescita dei vegetali, inclusi i tanti coltivati dall’uomo.
Nell’ambito delle zooculture esistono aziende di lombricoltura che allevano e vendono (anche in rete, per poche decine di euro) diverse specie di lombrichi (Lumbricus terrestris, Eisenia fetida e altri) da impiegare in attività agricole. Una forma di utilizzo domestico che si sta diffondendo è la produzione di compost dal rifiuto organico del quale promuovono la bio-degradazione: non è così rara ormai l’installazione di contenitori preposti alla produzione del compost sia a livello condominiale sia di singole famiglie. Non è nemmeno necessario acquistarne un numero elevato, considerando l’alta capacità riproduttiva. Sebbene ermafroditi (portatori di testicoli e ovari) di tipo insufficiente (a volte il singolo animaletto si comporta da maschio, a volte da femmina), la riproduzione è di tipo sessuato e, affinché avvenga, bisogna trovare un partner ed accoppiarsi «testa-piedi».
Quando piove e il terreno è colmo d’acqua, migrano in superficie (ecco perché se ne osservano così tanti dopo acquazzoni o piogge battenti): la respirazione (lo scambio di gas) è infatti cutanea e poiché i gas diffondono ben poco in acqua, è per loro necessario portarsi in ambiente aereo per respirare. I vermi di terra si presentano, grazie alla loro biologia, come dei naturali ingegneri degli ecosistemi terrestri: promuovono la stabilizzazione dei suoli, ne aumentano la porosità e ne riducono l’erosione. È quindi di indubbia rilevanza la pubblicazione del monumentale atlante biogeografico dei «vermi di terra» (che ha visto il coinvolgimento di 141 ricercatori di ben 35 Paesi) sulla prestigiosa rivista «Science» nel numero dello scorso 25 ottobre. In oltre 7 mila siti di 56 Paesi sono state valutate la biomassa, l’abbondanza e la ricchezza di diverse specie in relazione alla costituzione del terreno, alla temperatura, alle precipitazioni e a diverse altre variabili.

Ora perciò gli ecologi conoscono quali specie vivono nei diversi suoli, dove si trovano e quali funzioni specifiche svolgono nei rispettivi ecosistemi. Questi dati analitici costituiscono, inoltre, la necessaria premessa per le azioni di monitoraggio, oggi urgenti, a causa dei gravi cambiamenti climatici prodotti dall’uomo. Non va dimenticato che negli ultimi 7.000 anni abbiamo modificato più della metà della superficie terrestre, circa un terzo dopo la rivoluzione industriale, distruggendola e modificandola per uso agricolo, industriale e residenziale. Grazie al loro ruolo di ingegneri dei suoli, i vermi di terra sono efficaci reagenti biologici che massimizzano le produzioni agricole; inoltre, sono dei bioindicatori naturali della qualità e biodiversità dei suoli (ormai «ricchi» di diverse tipologie di inquinanti, pesticidi eccetera). Per abitudine alimentare e per l’intimo contatto con il suolo, il comune lombrico costituisce un ottimo bioindicatore della qualità dei terreni dai quali accumula metalli pesanti e molecole di diversi tipi che ne alterano i tanti processi fisiologici, quello riproduttivo soprattutto. Infatti, lo studio del processo che porta alla formazione degli spermatozoi (cellule particolarmente sensibili alle azioni degli agenti inquinanti), in condizioni sperimentali (cioè animali venuti a contatto con terreni inquinati da pesticidi, metalli pesanti, diossina) e in condizioni di controllo (in terreni «puliti»), permette di comprendere il rischio biologico di queste sostanze e di traslare la loro pericolosità all’uomo. 
Un esempio noto è lo studio compiuto nel bosco delle querce di Seveso in occasione del ventennale dell’incidente avvenuto il 10 luglio 1976 nell’industria chimica Icmesa, che causò la fuoriuscita di una nube tossica composta dalla più pericolosa delle diossine, la Tcdd. Negli anni successivi fu possibile valutare il rischio biologico nella fruizione del bosco anche grazie allo studio della biologia di questo animale (in particolare della sua spermatogenesi) confermando il pieno successo del recupero ambientale dei 43 ettari dell’area totalmente scarificata e ripristinata. Il bosco delle querce di Seveso è ancora oggi uno dei pochissimi esempi di ecologia della ricostruzione degli habitat naturali. Tema quest’ultimo di eccezionale rilevanza nella discussione sul «che fare» dinanzi al disastro ambientale del pianeta. L’ecologia della descrizione dispone infatti di un vasto corpo concettuale, di sapere interdisciplinare: non così l’ecologia della ricostruzione, che ben può essere monitorata anche grazie ai vermi.
Da ultimo, non va dimenticato un ruolo nobile che questi organismi svolgeranno probabilmente nel prossimo futuro, ovvero quello della produzione di proteine animali. Gli 8 miliardi di umani prossimi a venire dovranno, di necessità, trovare fonti alternative all’allevamento intensivo di bovini, ovini e suini. Per questo motivo non sarà più possibile chiamarli vermi.