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 2019  novembre 17 Domenica calendario

Gli intraterrestri

Secondo la teoria proposta nel 1974 da Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, la vita si sarebbe sviluppata sul nostro pianeta a partire da molecole di Dna e Rna o da virus provenienti dallo spazio e portati da asteroidi o meteoriti. L’indiscutibile inconsistenza di tutti gli argomenti portati a sostegno di questa ipotesi non deve tuttavia portarci a concludere che, in tutto l’Universo, la vita esista solo sulla Terra. A prescindere da un’eventuale possibilità che la vita sia stata trasportata da una parte all’altra dell’Universo, l’eventuale (e probabile) presenza di forme viventi a grandi distanze astronomiche dal nostro pianeta porterebbe a pensare che la vita possa essere sorta indipendentemente più volte, là dove si siano realizzate condizioni adatte al suo sviluppo, in particolare la presenza di acqua e temperature non troppo lontane da quelle compatibili con la vita terrestre.
In ogni caso, la nostra indagine sulla vita nello spazio può cominciare sui corpi celesti più vicini: non su quelli più prossimi al Sole, troppo caldi, né sui pianeti più lontani, bensì forse su Marte. Certo, in quei solchi sulla superficie del «pianeta rosso» osservati dall’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, l’acqua, ai nostri giorni, non c’è. Tuttavia, gli astronomi, così come ci raccontano di una Terra primordiale sulla superficie della quale la temperatura era elevatissima, suggeriscono pure che sulla superficie di Marte, in passato, le condizioni ambientali potrebbero essere state compatibili con la vita.
Il problema, allora, si sposta. Se è vero che sulla superficie di Marte la vita non è più presente, dobbiamo però escludere che ne sia rimasta traccia da qualche parte? Cioè dobbiamo fare un viaggio...
Da Marte al sottosuolo della TerraPer rispondere alla domanda, conviene ripartire dalla Terra. Anzi, da sottoterra. Fino a pochi secoli fa, le conoscenze obiettive sull’esistenza di forme di vita sotto i nostri piedi erano limitate alle talpe, ai lombrichi e alle radici degli alberi. Poi, a partire dal XVI secolo, si è cominciato a conoscere il mondo degli animali cavernicoli, quasi sempre pallidi e ciechi, come il proteo delle grotte di Postumia.
Un nuovo orizzonte si è aperto con la scoperta di forme di vita nell’acqua che riempie i pori e le fessure delle rocce fino a profondità grandissime, oltre i cinque chilometri. Non si tratta, naturalmente, né di piante né di animali, ma di batteri capaci di sopportare condizioni ambientali, come l’assenza di ossigeno e le temperature molto alte, proibitive per qualsiasi altra forma di vita. Alcuni di essi sopravvivono fino a 113 gradi, anche se il valore ottimale per loro è di «soli» 105.
Alte temperature, assenza di ossigeno e abbondanza di quelle sostanze chimiche che si accompagnano ai fenomeni vulcanici – ad esempio, metano e composti dello zolfo – sono condizioni simili a quelle che caratterizzavano la superficie della Terra in un primo segmento della storia del pianeta. Condizioni che, quando si sono fatte meno estreme, sono diventate compatibili con forme di vita simili a quelle che oggi troviamo all’interno delle rocce.
Nel terzo capitolo («Gli intraterrestri») del libro I misteri del sottosuolo di Will Hunt, del quale è uscita in questi giorni l’edizione italiana, recensita sulle pagine de «la Lettura» da Edoardo Vigna, si accenna a un’ipotesi sostenuta da Jan Amend dell’University of Southern California a Los Angeles. Secondo questo ricercatore, se la vita esiste, o almeno è esistita, su Marte o su un altro pianeta del nostro sistema solare, è molto probabile che ne rimanga traccia nel sottosuolo di quel corpo celeste. Per farcene un’idea, è importante studiare i batteri intraterrestri scoperti in questi anni nelle profondità della crosta terrestre. Ma per comprendere su che cosa si basa l’ipotesi di Amend, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. Un passo indietro di almeno...
Quattro miliardi di anni faLa vita sulla Terra è nata in fretta, una volta iniziato il raffreddamento della crosta. Il vapor acqueo fuoriuscito dai vulcani ha formato gli oceani, circa 3,95 miliardi di anni fa, attraverso copiose piogge. Contemporaneamente alla nascita dei mari appaiono le prime tracce di arricchimento di carbonio nelle rocce, segno di passate attività biologiche. Dunque la vita appare non appena il pianeta si raffredda.
Un problema che si è posto agli studiosi dell’origine della vita terrestre è dove essa possa essere nata, poiché la superficie del nostro pianeta era inizialmente a quasi 700 gradi e una volta raffreddatasi è stata bombardata per un miliardo di anni da asteroidi e comete. L’ambiente della Terra primordiale appare lontanissimo dagli scenari immaginati a metà del Novecento da Aleksandr Ivanovic Oparin e da Stanley Miller per gli esperimenti sulla nascita del brodo primordiale in cui si sarebbero sviluppate le prime cellule. Bisogna quindi pensare a luoghi alternativi alla superficie: con temperature stabili, protetti dai raggi UV del Sole e dal bombardamento di asteroidi e comete, e con acqua liquida, indispensabile per ogni attività degli esseri viventi.
Alcuni ricercatori hanno rivolto la loro attenzione alle grotte, scavate dall’acqua nel corso dei secoli o derivanti da fratture nei movimenti dei continenti. All’interno di alcune grotte, rimaste isolate dall’esterno per migliaia e migliaia di anni, sono state trovate comunità di animali che ricavano il loro nutrimento partendo dalle sostanze vulcaniche, gas sulfurei e acque termali, che fuoriescono dalle fessure della Terra.
A questi animali si affiancano dei batteri che vivono all’interno delle rocce, nei rivoli d’acqua che dalla superficie scendono lentamente in profondità.
Per quanto ne sappiamo, sulla Terra primordiale, una volta che il vapore d’acqua vulcanico si è trasformato in piogge, fiumi, laghi e oceani, il gas residuo in atmosfera era composto al 95% da anidride carbonica, che è in grado di restare in circolazione per decenni. I primi organismi dovevano essere anaerobi, in grado di vivere alla superficie ma schermati dalla letale radiazione ultravioletta del Sole, al riparo delle grotte o sotto le sabbie. Una facile alternativa alla morte per radiazione UV o per il calore provocato dalla caduta di meteoriti e asteroidi era fornita dagli oceani, nelle cui profondità si trovano ancora oggi vulcani sottomarini che producono calore e gas sulfurei. Nell’acqua la radiazione UV è schermata, la temperatura è alta vicino ai vulcani ma passa rapidamente a 4°C a pochi metri di distanza. Qui, dalla fine degli anni Settanta, l’esplorazione sottomarina ha rivelato l’esistenza di un intero mondo di forme viventi adattate a condizioni estreme che ricordano, per alcuni aspetti, quelle che hanno visto sorgere la vita sul nostro pianeta. Dalle fratture che si aprono sul fondale oceanico fuoriesce acqua calda ricca di composti di zolfo, creando un ambiente buio e isolato. Su questi fondali si è evoluto un vero ecosistema, la colonna portante del quale sono i batteri che ricavano l’energia da reazioni chimiche che coinvolgono i composti dello zolfo. Ci sono però anche organismi più grandi e più complessi di un batterio, ad esempio granchi e molluschi, ma la presenza più singolare è Riftia pachyptila, verme tubicolo lungo fino a due metri. Come per tutti gli altri animali che vivono in vicinanza di questi affioramenti di acque termali sulfuree, la sua unica fonte di sussistenza è data proprio dai batteri di cui il suo corpo è infarcito.
Sulla Terra dei nostri giorni, questi ecosistemi «alieni» sono quasi completamente confinati nelle profondità del sottosuolo e dei fondali marini. Le condizioni che vi regnano sono accettabili solo per un numero molto ristretto di forme di vita animale, che vi si sono adattate in tempi recenti (su scala geologica).
Fra 3 e 2 miliardi di anni fa l’ossigeno si è diffuso negli oceani e nell’atmosfera, attraverso la fotosintesi utilizzata dai cianobatteri che eliminano l’anidride carbonica dell’atmosfera rilasciando, con il contributo energetico della luce solare, l’ossigeno come prodotto di scarto. Questa ossidazione dell’atmosfera, il Great Oxidation Event, ha creato una fascia di ozono a poche decine di chilometri di altezza. La fascia di ozono assorbe la radiazione ultravioletta del Sole e ha permesso alle forme di vita terrestri di uscire alla superficie, diffondendosi sui continenti senza subire danni da radiazione.
A questo punto, il discorso può ritornare su Marte. E ripartire da una delle domande iniziali...
C’è stata vita su Marte?Il processo di evoluzione dell’ambiente, descritto per la Terra, deve essersi svolto anche su questo pianeta. Più piccolo della Terra, si è raffreddato più velocemente e probabilmente ha avuto mari e fiumi, come è documentato da strati di rocce sedimentarie, testimonianze di antichi laghi. Non sappiamo come sia nata la vita sulla Terra, ma lo stesso fenomeno potrebbe essersi svolto anche su Marte, dove esistevano le stesse molecole organiche. Ma le minori dimensioni del pianeta hanno causato lo spegnimento dell’attività vulcanica, che è la maggiore sorgente di gas atmosferici. Una volta chiuso il «rubinetto» dei gas, l’atmosfera marziana si è persa, in parte dissociata dalla radiazione solare e diffusa nello spazio, in parte inglobata nelle rocce. Alla fine, pressione e temperatura atmosferiche sulla superficie marziana si sono abbassate a livelli tali da non permettere più la presenza di acqua liquida in superficie. Non essendoci mai stata la fotosintesi, non esiste uno strato di ozono protettivo e qualunque forma di vita marziana sarebbe oggi uccisa in superficie. Non ci sono neppure più laghi o mari in cui rifugiarsi e perciò l’unica speranza di trovare ancora forme di vita attive è nelle profondità della crosta.
Per questo le sonde esploratrici inviate su Marte cercano per prima cosa acqua liquida nel sottosuolo, e quindi eventuali batteri anaerobi. Equivalenti agli intraterrestri del nostro pianeta, anche se, probabilmente, figli di una storia della vita indipendente, parallela a quella della Terra.