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 2019  novembre 17 Domenica calendario

In morte di Antonello Falqui

«Odio tutto ciò che è casuale, fortuitamente lasciato agli eventi, fuori dell’orbita del pensiero. Accanto all’esigenza di accontentare il pubblico nei suoi desideri, ci deve essere anche una volontà di stimolo al buon gusto, a un minimo di senso critico». In queste parole si racchiude la tv di Antonello Falqui, il più grande regista d’intrattenimento della tv italiana, il cui lavoro si è sempre svolto all’insegna del gusto e della classe.
«Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio... potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla Chiesa Sant’Eugenio a viale Belle Arti, Roma. Mi raccomando, niente fiori…». Se n’è andato all’età di 94 anni, con la stessa ironia con la quale ha vissuto, il regista di tanti varietà e programmi tv della Rai, Antonello Falqui, «comunicando» la sua scomparsa attraverso un post sui suoi profili Twitter e Facebook, che chiude con un «P.S. Perdonate Jimmy, Matteo e Luca se non vi hanno avvisato prima».
Aveva iniziato con Arrivi e partenze (1954) e finito con Un altro varietà (1986), in mezzo alcune pietre miliari della tv: Canzonissima (1958-59, 1969-70), in particolare l’edizione con Scala-Manfredi-Panelli resta il paradigma perfetto del varietà televisivo, Giardino d’inverno (1961), con le sorelle Kessler e il Quartetto Cetra, Studio Uno, Biblioteca di Studio Uno e Teatro 10 (1964), Mille luci (1974).
Il suo capolavoro è Studio Uno. Mentre Torino celebrava con Italia 61 il centenario dell’unità d’Italia, gli italiani scoprivano le gemelle Kessler e il Dadaumpa. Falqui e Guido Sacerdote erano stati negli Usa, avevano visto spettacoli nuovi, volevano proporli in Italia. Non c’era più bisogno di scenografie sfarzose, gli artisti si muovevano su fondali fatti di grandi spazi bianchi. La telecamera poteva così far risaltare meglio i corpi delle ballerine, degli ospiti, dei conduttori; si cominciava in questo modo a ragionare in termini di linguaggio televisivo. E poi la cosa più moderna, sconvolgente: si vedevano in campo gli strumenti con cui si riprende lo spettacolo: telecamere, microfoni, giraffe, luci...
Sull’Espresso, Sergio Saviane ebbe parole di elogio: «Il merito di Sacerdote e Falqui non è solo d’aver allestito un varietà televisivo divertente, vivo, con molte idee e che promette di migliorare nelle prossime settimane, ma d’aver sconvolto le acque del rattrappito mondo della canzone, mettendo al bando i cantanti e le loro pietose interpretazioni».
Studio Uno elimina i grigi, conosce solo il bianco e il nero. Ma non basta: di fronte a tanta accuratezza e tanta misura scenografica è possibile giocare sulla ridondanza. Nell’apparente asetticità dello studio c’è bisogno dell’enfasi delle gambe (le gemelle Kessler), dell’enfasi della parola (Walter Chiari), dell’enfasi della voce (Mina). Grazie a Falqui, l’allora direttore generale, il cattolicissimo Ettore Bernabei, si poteva vantare di aver tolto la gonna alle gemelle Kessler: «Le proponemmo con il tutù e la calzamaglia nera, senza gonna. Avevano bellissime gambe, ed erano statuarie come la Venere di Milo… E non si muovevano in maniera ammiccante e invitante: facevano vedere come si presenta, con eleganza e signorilità, una bella donna; sicché anche gli uomini presi da desideri umani le guardavano come ideali di bellezza e si contentavano delle loro mogli magari con un po’ di cellulite».
In un’intervista rilasciata a Malcom Pagani, Falqui aveva confessato: «Non volevo alfabetizzare il Paese come il maestro Manzi, ma solo intrattenerlo con grazia ed eleganza. Così provai a trasformare la tv e spostai in quel contenitore il teatro di rivista, già declinante all’inizio degli anni 50. L’avanspettacolo lo conoscevo bene. Facevo sega a scuola per andare a vedere Rascel al Bernini». A differenza di Enzo Trapani (Roma 1922-89), l’altro grande regista di varietà che amava le telecamere in continuo movimento, i montaggi audaci e nervosi, l’assenza della classica figura del conduttore, Falqui ha rappresentato l’espressione più alta del varietà televisivo classico. Così la pulizia formale, gli ampi e maestosi movimenti di macchina, le scenografie moderne costituiscono ancora oggi il timbro inconfondibile delle sue regie.