Corriere della Sera, 12 novembre 2019
Susanna Tamaro e le sculture del Duomo di Orvieto
Sono stata per la prima volta a Orvieto nel 1978. Studiavo allora al Centro sperimentale di cinematografia e si svolgeva un qualche convegno sulle scuole di cinema europee. Non sapevo nulla di quella piccola città medievale, così quando, percorrendo via Maitani, mi sono trovata improvvisamente di fronte alla facciata del Duomo, ho provato un profondo turbamento. Ero impreparata all’esplodere improvviso di tanta bellezza. Anche Edith Wharton, ho scoperto anni dopo, percorrendo nel suo viaggio in Italia la strada che da Bagnoregio porta a Orvieto, alla vista del Duomo quasi sospeso tra le nubi era stata colta dalla Sindrome di Stendhal.
Non avrei mai immaginato, all’epoca, che un giorno non solo mi sarei trasferita a vivere lì ma sarei diventata anche in qualche modo «custode» di questa straordinaria opera di arte e di fede. Da cinque anni, ormai, infatti, faccio parte dell’Opera del Duomo di Orvieto. Quando lo racconto, vedo apparire sul volto della maggior parte delle persone un’espressione di stupore. Che cos’è l’Opera del Duomo? mi chiedono. Le Opere del Duomo, o le Fabbricerie, sono nate nel Basso Medioevo al tempo dell’inizio dell’edificazione delle grandi cattedrali europee. Gli sponsor dell’epoca appartenevano per lo più alle corporazioni dei mestieri: artigiani, commercianti, l’embrione della borghesia nascente. Donando la maggior parte dei fondi, ben presto decisero che era necessario avere un organismo per controllare l’uso che ne veniva fatto, così prese corpo l’ente delle Opere del Duomo, un’istituzione che dura con continuità dalla fine del 1200. Ogni Opera è composta da sei membri e da un presidente che lavorano a titolo gratuito; le cariche, approvate dal ministero dell’Interno e dal vescovo della città, hanno la durata di tre anni e sono rinnovabili una volta sola. Il suo compito è sempre quello, da secoli: occuparsi della gestione dei fondi e della manutenzione dell’edificio sacro. Nei primi tempi, tornando dalle riunioni, passavo delle notti insonni: le cifre che sentivo snocciolare erano da capogiro. Non pensavo — nessuno generalmente pensa — a quanto costi mantenere una cattedrale. Tutti credono, erroneamente, che sia il Vaticano a farsi carico dei suoi gioielli, ma così non è. Prima dell’Unità d’Italia, le cattedrali, le basiliche e le chiese venivano mantenute dalle donazioni private dei cittadini. In un tempo in cui si era piuttosto sensibili al tema della vita eterna lasciare un’eredità alla Chiesa era considerato un buon lasciapassare per evitare la più grave delle condanne.
Con il sorgere del Regno d’Italia tutti i beni delle Fabbricerie furono incamerati dalla nuova realtà nazionale. La Chiesa fece ricorso e, dopo una causa trentennale, riuscì a vincerla ma, nel frattempo, lo Stato aveva letteralmente polverizzato tutti i beni sequestrati. Come indennizzo di questa storica vicenda, il Duomo di Orvieto riceve attualmente dallo Stato italiano una cifra inferiore ai 100 mila euro annui. Cifra imbarazzante per la sua pochezza, in relazione a un edificio così imponente, che conserva tante opere d’arte e con così tanti secoli sulle spalle. Essendo la vita ultraterrena sparita dall’orizzonte dei possibili mecenati, ormai le cattedrali si mantengono principalmente con gli introiti dei biglietti d’ingresso.
In questi anni di lavoro con l’Opera, ho così avuto il privilegio di poter partecipare a un evento straordinario: il ritorno in Duomo delle statue di epoca barocca dei Dodici apostoli e dell’Annunciazione di Francesco Mochi dopo 122 anni di esilio. Cinque anni di riunioni, discussioni, decisioni da prendere — non c’è nulla di semplice nel nostro Paese, e soprattutto nulla di semplice nel trasporto di statue che pesano 50 quintali l’una. Le statue erano state tolte dal Duomo alla fine del 1800, sull’onda di una corrente di purismo che voleva riportare l’interno alla sobrietà originaria, cancellando così centinaia di anni di arte, di storia e di fede. Lo scandalo delle statue relegate «in cantina», come scrisse Cesare Brandi nel 1984, è di lunga data. Alla voce di Brandi, si aggiunse, nel 1990, quella indignata di Federico Zeri. «Se dipendesse da me — scriveva — non esiterei un solo istante a ricollocare nel Duomo i Dodici apostoli e soprattutto l’Annunciazione del Mochi, proposta avanzata ma che ha trovato gravi ostacoli nella curia vescovile». Era stato infatti proprio lo stesso Brandi ad annunciare — ottimisticamente — sulle pagine del «Corriere della Sera» nel 1986 l’imminente ritorno del complesso delle statue nel Duomo. Trentatré anni dopo, dalle stesse pagine, posso finalmente confermare: le statue sono tornate! E sono tornate grazie alla passione e alla sensibilità dell’attuale vescovo Benedetto Tuzia, dei membri dell’Opera presieduta da Gianfelice Bellesini e da tante persone che, per anni, hanno lavorato dietro le quinte affinché questo evento potesse realizzarsi.
Che cosa siano queste statue — scolpite nel corso dei secoli da Francesco Mochi, da Ippolito Scalza e dai più importanti scultori dell’epoca barocca — lo lascio dire agli esperti di storia dell’arte, campo in cui ho davvero poche nozioni e che non mi compete. Da parte mia, ho voluto semplicemente raccontare un piccolo grande evento del nostro complicatissimo e meraviglioso Paese.
Da naturalista quale sono, il nuovo assetto del Duomo mi ha fatto pensare alle conchiglie. Che cos’è, infatti, una conchiglia se non la splendida memoria di un’esistenza — quella del gasteropode — che non c’è più? Ecco, il Duomo che, per più di cento anni, si è presentato spoglio agli occhi dei visitatori era proprio questo: una meravigliosa struttura architettonica a cui era stata sottratta la vita. Ora la vita è tornata. Non aspetta altro che occhi capaci di stupirsi e di emozionarsi davanti a tanto splendore, ottenuto nel corso dei secoli senza computer, senza sponsor, senza archistar, ma grazie all’umile lavoro di migliaia di artisti e artigiani che hanno creduto fermamente in una visione. E nella bellezza che questa visione era capace di sprigionare.