Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 15 Venerdì calendario

NESSUNO È AL SICURO – IL TUMORE AL PANCREAS RESTA IL PIÙ LETALE: NON ESISTONO TEST PER LA DIAGNOSI PRECOCE E TRE QUARTI DEI PAZIENTI MUORE ENTRO UN ANNO DALLA SCOPERTA – PER PREVENIRLO BISOGNA SMETTERE DI FUMARE E FARE ATTENZIONE ALL’ALIMENTAZIONE SOPRATTUTTO PERCHÉ NON DÀ SINTOMI SE NON “VAGHI” E TIPICI ANCHE DI ALTRE MALATTIE MENO GRAVI: OCCHIO ALLA COMPARSA IMPROVVISA DEL DIABETE IN UN ADULTO, AL DOLORE PERSISTENTE IN… -

Quali sono i numeri in Italia? I casi di tumore del pancreas, che verrà diagnosticato a 13.500 italiani nel 2019, sono in crescita e cresce anche il numero di decessi che provoca. Mantiene, infatti, il triste primato come tipo di cancro più letale: tre quarti dei malati muore entro un anno dalla diagnosi e a 5 anni dalla scoperta della malattia sono vivi solo 8 pazienti su 100. Resta un nemico difficile da combattere anche perché spesso viene diagnosticato in fase avanzata.

Esistono test per la diagnosi precoce? Ad oggi, nonostante le innumerevoli ricerche, gli scienziati ancora non sono riusciti a trovare un test in grado di scovarlo in stadio precoce, quando sarebbe possibile curarlo con maggiore efficacia. E sebbene negli ultimi anni siano stati fatti dei progressi nella comprensione delle mutazioni genetiche che lo provocano, resta ancora moltissimo da fare.

Perché è così complicato riuscire a fermarlo? «E’ un tumore complicato per la sua biologia infida e non prevedibile - risponde Stefano Cascinu, ordinario di Oncologia Medica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano -. Per questo motivo la diagnosi dev’essere davvero precoce: parliamo di dimensioni non superiori a 1-2 centimetri.

E poiché non da disturbi in questa fase di crescita, è difficile arrivare alla sua scoperta. Possiamo e dobbiamo però cercarlo in quegli individui che sappiamo avere un maggiore rischio di svilupparlo: persone nei cui familiari di primo grado ci sono stati due o più casi di malattia, oppure nelle famiglie in cui ci sia una alterazione dei geni BRCA1 e 2, che sono tipicamente associati a tumori della mammella e dell’ovaio, ma che presentano anche un rischio, seppure minore, per neoplasie pancreatiche.

Infine, ed è una raccomandazione importante anche ai medici di medicina generale, non sottovalutare mai l’insorgenza di un diabete in un individuo con una età di 50 anni o più perché potrebbe nascondere una neoplasia pancreatica. E questa diagnosi potrebbe essere davvero precoce».

Cosa possono fare le persone per prevenirlo? «Non molto – dice Giampaolo Tortora, oncologo medico direttore del Comprehensive Cancer Center della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma -. Ma sappiamo di per certo che 3 casi di cancro al pancreas su 10 sono causati dal tabacco e che l’obesità aumenta il rischio di questa malattia.

Per cui non fumare, seguire una dieta sana, stare alla larga dai chili di troppo e mantenere una moderata e costante attività fisica sono 4 azioni semplici e importanti».

Ci sono dei campanelli d'allarme? Visto che oltre la metà dei pazienti scopre il tumore quando è già in fase metastatica, è bene non trascurare alcuni sintomi sospetti, seppure un po’ “vaghi” e tipici anche di altre malattie meno gravi: «In particolare è bene fare attenzione alla comparsa improvvisa del diabete in un adulto, dolore persistente nella zona dello stomaco o a livello della schiena al punto di passaggio tra torace e addome, importante calo di peso non giustificabile, steatorrea (cioè feci chiare, oleose, poco formate, che tendono a galleggiare), comparsa di trombi nelle vene delle gambe o diarrea persistente non spiegata da altre cause» aggiunge Tortora.

Perché non si trovano metodi per diagnosi precoce? «I motivi sono diversi – spiega Tortora -. Prima di tutto anatomici e clinici: il pancreas svolge funzioni fondamentali come la digestione e la regolazione del glucosio nel sangue, ma è un organo molto piccolo (è lungo solo circa 15 centimetri), in una posizione profonda nell’addome, circondato da altri organi e spesso difficile a vedersi bene con esami semplici come ad esempio un’ecografia.

Solo negli ultimi anni l’impiego di TAC di nuova generazione e risonanza magnetica hanno consentito di esaminarlo bene. La sintomatologia è spesso molto vaga: i dolori lombari nei tumori della coda e l’ittero in quelli della testa sono i sintomi più eclatanti ma non sono sempre presenti, molto più spesso i sintomi sono rappresentati da qualche disturbo digestivo e poco altro».

Che fare con le lesioni precancerose? «Un altro ostacolo – risponde Tortora - è rappresentato dalle scarse capacità di seguire e capire l’evoluzione di alcune lesioni considerate come precursori del cancro del pancreas. I tumori intraepiteliali (PanIn) sono certamente precursori molto importanti da cui originano molti adenocarcinomi del pancreas, ma sono in genere piccolissimi e non tutti “degenerano” diventando tumori maligni.

Quindi, considerata la complessità della chirurgia per quest’organo, non è una buona idea rimuoverli chirurgicamente sempre una volta individuati. Tra gli altri precursori dei tumori maligni, quelli intraduttali papillari mucinosi (IPMN) e quelli cistomucinosi sono più grandi, ma anch’essi non sempre degenerano e quindi vanno soprattutto tenuti sotto controllo con esami ripetuti.

Diversi studi stanno cercando di identificare marcatori nel sangue in grado di distinguere quali IPMN nascondono già cellule maligne con capacità invasive e hanno possibilità di evolvere e quali invece possono restare a lungo innocui. Nei prossimi anni avremo certamente informazioni che ci aiuteranno a capirlo».

Nuove terapie in arrivo: qualcosa si muove? Al Congresso Europeo di Oncologia Medica di Barcellona, sono presentati i risultati di uno studio italiano su 124 pazienti che indicano la possibilità di ridurre il rischio di metastasi con una combinazione di chemioterapia (gemcitabina e Nab-paclitaxel) e rappresentano probabilmente un nuovo standard di cura per una precisa categoria di malati.

«Nel 30 per cento dei pazienti, la malattia è individuata in fase localmente avanzata, senza metastasi e non operabile – chiarisce Cascinu -, ma tutte le opzioni di trattamento proposte finora per questi malati erano più il frutto di esperienze dei singoli medici o centri piuttosto che una scelta basata sull’evidenza scientifica».

Anche in Italia si fa ricerca «Al convegno Esmo di Barcellona, è stato proprio uno studio italiano (GAP), a indicare per la prima volta la via da seguire: il regime chemioterapico costituito dalla combinazione di nab-paclitaxel e gemcitabina riduce infatti il rischio di metastasi del 25% rispetto alla sola gemcitabina - conclude Cascinu -. La combinazione aumenta il tempo alla progressione della malattia e migliora la sopravvivenza (con una riduzione del rischio di morte del 35%).

È un dato importante, perché una parte di questi pazienti, in seguito, può essere trattata con la radioterapia che contribuisce al controllo generale della malattia; in una parte dei partecipanti si è ridotta la malattia e circa il 6% che non era operabile, ha potuto affrontare l’intervento chirurgico».