il Giornale, 15 novembre 2019
Incontro con Gipi
«Ho solo un problema, io sono misantropo, non mi muovo mai, devi venire tu da me, il pranzo lo pago io» gli dico. «Allora c’è un problema, perché io sono peggio di te, vieni tu, il pranzo lo pago io» mi risponde lui. Gli ho detto che io sono uno dei più grandi scrittori italiani, e lui ha risposto «eh, sticazzi», perché giustamente lui è uno dei più grandi fumettisti italiani. Quindi non c’è stato niente da fare, sono dovuto andare io, da Gipi. Tanto la storia di Maometto e della montagna che cammina non l’ho mai capita.
Così Gipi mi aspetta in un’osteria sull’Ardeatina, vicino casa sua. Lontanissima da casa mia, per arrivarci ho dovuto prendere come taxi Emilio Pappagallo, il geniale direttore di Radio Rock. Il fatto è che ho appena finito di leggere il suo ultimo libro, Momenti straordinari con applausi finti (Coconino press), e è bellissimo, un capolavoro. Altro che i romanzini italiani premiati allo Strega.
È la storia di un comico che si ritrova a prendersi cura della madre morente, ma il libro ha una struttura complessa, dove si intersecano altri due piani narrativi, quello, in bianco e nero, con dei cosmonauti che vagano da un pianeta all’altro finendo su un pianeta dove tutto sembra ripetersi e niente avere senso, e quello di un uomo delle caverne. Tutto questo con gli inimitabili disegni di Gipi, liquidi, malinconici, taglienti. Alla fine se ne esce stravolti, straniati, commossi, anche per aver letto una vera opera d’arte e non la solita minestrina riscaldata.
A proposito di minestrine, Gipi ordina un piattone di tonnarelli cacio e pepe, io un’insalatina perché sono a dieta. Gipi è uno di quelli che mangia e è magrissimo, io non mangio e non perdo un chilo. Però è vero che lui beve acqua e io Coca e rum, e al secondo rum mi sciolgo e riesco a parlargli di ciò di cui voglio parlargli, del suo libro, di lui. «È una storia autobiografica?» butto lì. Gipi annuisce, e io subito, pettegolo: «Anche la storia che non puoi avere figli?». «Anche». «Che nel libro fa venire fuori la rabbia dell’uomo primitivo del protagonista». «È la parte rettile, ancestrale, che penso vada combattuta». «E il nero, quel vortice nero che inghiotte i cosmonauti e li obbliga a rivivere ciò di cui non ricordano?». «Il nero è il punto zero della speranza. Quello che facciamo noi stessi di continuo. Ti innamori di nuovo. Ricominci. Come se non ci fosse mai stato niente prima».
A stare con Gipi ti sembra di vivere come dentro uno dei suoi meravigliosi fumetti, insomma parla come un fumetto stampato. Ci si sente malinconici ma euforici. O forse è l’etanolo che comincia a farmi effetto. Comunque sia lo amo, e glielo dico: «Ti amo». Gipi sorride e dice: «Forse dovresti andarci piano con quel rum».
Io invece ne ordino un terzo e mi giustifico: «Non è che sono alcolizzato, è che quando vedo qualcuno devo bere». «Ti capisco benissimo, io non posso bere, sennò farei come te». Mi sento molto vicino a Gipi perché penso che abbiamo entrambi la stessa visione tragica dell’esistenza, io la metto nei miei romanzi, lui nei suoi fumetti, che poi sono romanzi a fumetti. Così gli domando cosa è per lui l’angoscia. «Quando vedi il mondo come è. Ma ho deciso che era la parte sbagliata» fa Gipi. Ci penso su un attimo. «In che senso?». «La verità non conta un cazzo, ecco». Ecco. «Cioè?». «Boh, forse ho detto una cazzata».
Mi viene in mente che nella parte dei cosmonauti c’è questo mondo senza senso che si ripete incessantemente, e ripenso all’eterno ritorno di Nietzsche. Non che me ne freghi più granché di Nietzsche, a me ormai interessa solo la scienza, ma voglio fare bella figura. Gipi mi sorride e fa: «So una sega di Nietzsche, sono un fumettista, mica un filosofo». Ok. Che cavolo vado a chiedere pure io, come se fossi Eugenio Scalfari.
Non c’è verso di tirarlo troppo dentro la politica, l’attualità. Sebbene i suoi fumetti siano anche molto politici, ma universali. Dopo un po’ Gipi si stufa. In effetti parlare di Zingaretti, Di Maio, Renzi, Salvini, stona sempre quando sei con un grande artista. «E poi non si può avere un’opinione su tutto» fa Gipi, e intanto il suo piatto di tonnarelli è ormai finito, la mia insalatina pure, e ho più fame di prima, ma sono a dieta. «Assumere la forma dell’opinionista è una delle più grandi tragedie che possano accadere a un bipede» dice Gipi. Quanto ha ragione. Tuttavia mi viene in mente che Gipi viene spesso attaccato da destra, e allora domando: «Ti capita anche con quelli di sinistra?». «Caspita. Di solito arrivano con effetto risacca. Prima mi attacca l’estrema destra. Pausa. Estrema sinistra». «A me sembrano molto simili». Gipi fa spallucce: «Medesimo disprezzo dell’idea di libertà individuale. Preti. Tutti».
Mi ha colpito molto il finale del suo libro, quando la mamma muore, e resta il bambino, il bambino che spesso ricorre nelle storie di Gipi, il bambino che è Gipi stesso bambino, che corre verso la mamma. La mamma muore e resta un ricordo. «Il ricordo di quando eravamo ancora illusi, felici?» dico a Gipi, e mi astengo dal citare Leopardi, sennò mi risponde che mica è un poeta lui. «È un finale commovente perché è un ritorno all’infanzia, quando non sai niente, e sei solo energia fisica, e inconsapevolezza». Inconsapevolezza, appunto. Più conosci, più sarai infelice. Come pensava Leopardi.
Alla fine butto lì una domanda semplice, definitiva, perché Gipi come me mi sembra allergico a ogni metafisica (è una brutta parola che ho pronunciato un paio di volte e lui ha sbottato: «Metafisica? Che roba è?»). Così, quando siamo al caffè, gli chiedo: «Senti Gianni cos’è la morte?». Gipi beve un sorso d’acqua, mi fa un altro dei suoi bellissimi sorrisi gipiani, e risponde: «Una roba dove siamo già stati, perché eravamo morti già prima di nascere. E non era neanche una tragedia».