Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2019
Big tech all’assalto delle banche globali
Quando, ad agosto, Cupertino ha lanciato la sua carta di credito ha messo subito in chiaro che era «designed by Apple, non dalle banche», come a prendere le distanze da un mondo ormai superato. Le banche sono rimaste fin dall’inizio fuori dall’ambizioso progetto di criptovaluta di Facebook e anche gli attori che si erano mostrati disponibili hanno gettato la spugna sotto la pressione delle authority regolamentari di mezzo mondo. Ma intanto, nelle more dell’evoluzione di Libra, il gruppo di Mark Zuckerberg ha avviato il suo sistema di pagamento, Facebook Pay, che permetterà agli utenti di Messenger, Instagram e WhatsApp di scambiarsi denaro e fare acquisti. Ora Google alza il tiro nell’offensiva all’universo bancario tradizionale con la promessa di permettere ai suoi utenti di avere conti bancari a partire dall’anno prossimo.
Dall’altra parte Apple quando inaugura la sua carta deve necessariamente mettersi insieme a un colosso di quello stesso mondo in cui punta a entrare come Goldman Sachs. E, per diventare banca, Google sceglie come partner per il suo progetto – nome in codice “Cache” – Citigroup insieme a un piccolo lender della Stanford University. A dir la verità anche Amazon, già presente nel credito al business con la divisione Lending, punta a espandersi nel consumer mediante conti correnti, ma sta ancora trattando con le potenziali banche partner.
Non c’è dubbio che i due mondi – quello dei servizi finanziari come l’abbiamo conosciuto finora e quel Big Tech che ha nella monetizzazione dei dati personali la sua maggiore fonte di business – si stiano studiando in una fase di grande trasformazione del comparto. Se infatti i colossi hi-tech non nascondono le mire sulla montagna di informazioni connesse alla transazioni finanziarie, quelle che finora sono rimaste in gran parte dormienti nei caveau delle banche, non c’è dubbio che in questo momento abbiano bisogno dei soggetti tradizionali quantomeno per avere un supporto dal punto di vista regolamentare.
Il progetto di Libra ha dimostrato che senza il via libera delle authority finanziarie le ambizioni di Big Tech in ambito bancario rischiano di avere vita breve. Ma non c’è dubbio che lo stesso piano di Facebook per una propria criptovaluta che faccia da architrave di un sistema finanziario globale più efficiente e inclusivo abbia avuto il merito di mettere il dito nella piaga. Nonostante tutto c’è un’ampia fetta di popolazione mondiale ancora esclusa dalla bancarizzazione e dall’accesso al credito. Le criptovalute possono rappresentare una soluzione e lo dimostrano i progetti di valute digitali di diverse Banche centrali: la Bce ci sta lavorando, ma la prima potrebbe essere la Cina, la grande nemica di bitcoin che sarebbe pronta a lanciare una sua criptovaluta entro fine anno.
Ma c’è anche un universo di rimesse che quest’anno per la prima volta supererà il volume di investimenti esteri diretti versi i Paesi in via di sviluppo. Secondo i dati della Banca mondiale è un fiume di 689 miliardi di dollari inviati nei Paesi d’origine da 270 milioni di migranti. Spesso a costo di salate commissioni che, per esempio, Libra promette in buona sostanza di annullare.
Si tratta di un mondo di transazioni che fa gola a nuovi player finanziari che puntano a essere globali. Senza dubbio Big Tech ha il vantaggio di partire con una grossa base di utenti in tutto il mondo, oltre a una grande abilità nell’interfacciarsi con loro. Con i suoi quasi due miliardi e mezzo di utenti attivi, Facebook è l’ultimo dei colossi hi-tech a lanciare il suo sistema di pagamento: Facebook Pay è un servizio basato su carta di credito o Iban che, al pari di quelli di Google, Samsung, Amazon o Apple, permette di fare pagamenti e trasferimenti di denaro direttamente all’interno della app.
Ma adesso il mondo “techfin” – quello dei soggetti che partono dalla loro grande presenza tecnologica per avviare servizi finanziari – sembra pronto a fare un salto di qualità passando dai semplici pagamenti alle attività finanziarie più strutturate. Apple ha iniziato con l’emissione di una carta di cretido con proprio brand,da cui potrà ricavare ancora più informazioni rispetto alle semplici transazione registrate via Apple Pay, anche se ovviamente i due sitemi sono integrati. Da parte sua PayPal, dopo essersi tiratra fuori da Libra, si è alleata con Venmo per una propria carta di credito.
Ora Google, forse anche per far passare in secondo piano lo scandalo dei dati di 50 milioni di americani di cui si è impossessata, punta a mettere le mani direttamente sui conti correnti, come anche anche Amazon. O meglio sui checking accounts, una sorta di conti di deposito del mondo anglosassone con funzionalità più limitate (bonifici, pagamenti, risparmio) rispetto ai tradizonali conto correnti, sui quali i limiti regolamentari sono più laschi. Ma che portano in dote una quantità ben maggiore – e di valore enorme – di informazioni sui profili finanziari degli utenti: non solo le abitudini di acquisto, ma il livello di entrate, la propensione alla spesa, il profilo di investimento e di risparmio, sul quale poter costruire servizi ad alto valore aggiunto.
Tanto più che oggi l’open banking permette di costruire da zero in maniera semplice funzionalità nuove anche per attori estranei al mondo finanziario. La nuova direttiva europea Psd2, ormai a pieno regime da un paio di mesi, ha fornito le basi regolamentari uniformi per un nuovo mondo in cui gli attori si possono scambiare i ruoli in maniera molto agile: le piattaforme di open banking che si stanno sviluppando anche in Italia offrono Api, software che permettono di far comunicare sistemi differenti, che abilitano funzionalità bancarie complesse in tempi brevi.
Accanto al “techfin”, le banche si trovano a dover affrontare la concorrenza di società fintech molto specializzate su singoli servizi. Allo stesso tempo possono beneficiarne portando in case le loro competenze. Le nuove challenging bank -, da N26 a Revolut, da Monzo a Starling, ma anche un esempio italiano come illimity – nascono proprio con una struttura da “banche piattaforma” che costruiscono un bouquet di offerte sulla base di un servizio iniziale. Che di solito è una semplice carta di debito sulla quale vengono poi aggiunti servizi più strutturati. Ne è un esempio Revolut che ha avviato un’espansione internazionale a tappe forzate – già sbarcata a Singapore come ponte verso l’Asia e in Australia, entro fine anno arriverà negli Usa – con modalità molto semplici: una app, una carta inviata a casa e una banca locale come partner. Con una struttura così agile l’obiettivo di cento milioni di utenti in cinque anni non sembra poi così utopica.