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 2019  novembre 15 Venerdì calendario

Una mostra sulle pittrici Lavinia Fontana e Sofonisba Anguissola

In principio ci fu Caterina de’ Vigri, clarissa e miniatrice. Alla metà del ’400 a Bologna aveva fondato il monastero del Corpus Domini, del quale era stata badessa. Visse in odor di santità e il suo culto rimase così vivo in città che nel 1712 venne canonizzata da Clemente XI. Di lei ci sono giunti alcuni fogli delicati e luminosi.
Sempre a Bologna, all’inizio del secolo successivo, la bellissima Properzia de’ Rossi, scultrice, si allineò alle idee di Michelangelo e in più s’inoltrò entro una dimensione esecutiva rarissima: quella del microintaglio. Come ricorda Vasari – che le dedicò una biografia nella prima edizione delle Vite (1550) – «si mise ad intagliar noccioli di pesche, i quali sì bene e con tanta pazienzia lavorò, che fu cosa singulare e maravigliosa il vederli, non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine che in quegli faceva e per la delicatissima maniera del compartirle: e certamente era un miracolo veder in su un nocciolo così piccolo tutta la Passione di Cristo».
Poi venne Sofonisba Anguissola, pittrice cremonese che – assieme alle sorelle – diede vita a un atelier alacre e fortunato. Nel giro di pochi anni divenne celebre non solo per la sua innegabile bravura, ma anche per un ben pianificato lavoro di divulgazione della sua stessa immagine. Di lei ci restano numerosi autoritratti, alcuni dei quali presentano soluzioni bizzarre: come quello al Museum of Fine Arts di Boston, dove appare a mezzo busto sostenendo un clipeo in cui, oltre alla sua firma, compare un “crittogramma” con lettere intrecciate che compongono il nome del padre, Amilcare. Nella seconda edizione delle Vite (1568) Vasari – dopo aver menzionato altre pittrici attive in Italia (la monaca fiorentina Plautilla Nelli e Lucrezia Quistelli, allieva di Alessandro Allori) – si sofferma su “Sofonisba Cremonese”. Ricorda che «da sé sola ha fatto cose rarissime e bellissime di pittura; onde ha meritato che Filippo re di Spagna, (…) fattala condurre onoratissimamente in Ispagna, la tiene appresso la reina con grossa provisione e con stupor di tutta quella corte, che ammira come cosa maravigliosa l’eccellenza di Soffonisba. E non è molto che messer Tommaso Cavalieri [l’amico e amato di Michelangelo], gentiluomo romano, mandò al signor duca Cosimo (oltre una carta di mano del divino Michelagnolo, dove è una Cleopatra) un’altra carta di mano di Sofonisba, nella quale è una fanciullina che si ride di un putto che piagne, perché avendogli ella messo inanzi un canestrino pieno di gambari, uno d’essi gli morde un dito: del quale disegno non si può veder cosa più graziosa né più simile al vero …». Il foglio – che si conserva a Capodimonte – presenta un’invenzione singolarissima, che a fine secolo fu rielaborata dal giovane Caravaggio nelle sue due versioni del Fanciullo morso da un ramarro (Londra, National Gallery; Firenze, Fondazione Longhi). Le parole che Vasari riservò a Sofonisba fecero sognare la sedicenne bolognese Lavinia Fontana. Era figlia del pittore più in vista di Bologna, Prospero, attivo anche a Roma dove lavorò a Castel Sant’Angelo ed ebbe un rapporto molto stretto con papa Giulio III, dal quale era stipendiato.
Lavinia si impegnò nel diventare la pittrice più famosa d’Italia e ci riuscì. Nata nel 1552, a partire dalla metà degli anni settanta dipinse furiosamente, sperimentando senza pace. Inizialmente erano piccole composizioni sacre, di carattere devozionale, poi si aggiunsero le pale e i ritratti. In questi ultimi adottò ogni formato, passando dal mezzo busto, al tre quarti, alla figura intera, per giungere alla descrizione di interi gruppi famigliari, dei quali a volte raccontò storie complicate e atemporali. Si era specializzata nel ritrarre i bambini: vivi, morti, con balie, genitori, cani, simboli, premonizioni. Ma non si sottrasse neppure alla moda di mascherare i suoi committenti sotto altre identità, adottando la formula del cosiddetto “criptoritratto”. Lavinia aveva sposato un pittore – Giovan Paolo Zappi – che però relegò in un ruolo che oggi si definirebbe puramente manageriale: perché la capobottega era, indiscutibilmente, lei. Tra un quadro e l’altro (più di cento ne registra il catalogo ragionato di Cantaro, 1989: ma molti altri sono riemersi in seguito), ci fece comunque 11 figli.
Ora il Museo del Prado dedica a Sofonisba e Lavinia, entrambe attive per la corte spagnola, una mostra antologica curata da Leticia Ruiz Gómez e in linea con l’altissima qualità delle rassegne proposte da questo grande museo, che continua a coniugare spettacolarità e rigore scientifico (dal 22 ottobre al 2 febbraio). In mostra sfilano 62 dipinti, uno più intrigante dell’altro. Tra i pezzi più eclatanti, una Venere con Marte di Lavinia in cui Marte incredibilmente osa carezzare (ma propriamente palpeggia) il sedere della dea: fu il tributo che ella diede alla riscoperta cinquecentesca della classica Venere “callipigia” (ossia “dalle belle natiche”). Un apice della pittura erotica europea del XVI secolo.
Più ancora dell’isolata e capricciosa Properzia, furono proprio Sofonisba e Lavinia a sfidare un mondo dell’arte che all’epoca era inevitabilmente e irriducibilmente maschilista, giocando con intelligenza sulla diversità del “gentil sesso” e inventandosi un ruolo di “protofemministe”. Il loro esempio fu fondamentale per Artemisia Gentileschi, che a sua volta da ragazzina sognò di superare i maschi con la sua arte. Ma la Roma di Caravaggio non era né Cremona né Bologna, si potevano fare brutti incontri: e successe quel che successe.