la Repubblica, 15 novembre 2019
Nel campus di Hong Kong con i ribelli
«Il ponte è nostro. Se entrano qui potranno entrare ovunque». Steve la vedetta, 19 anni, matricola di ingegneria, scruta l’orizzonte con il binocolo in cima a una scaletta, una sagoma nera contro il cielo. Martedì su questo stretto cavalcavia “numero 2” che passa sopra autostrada e binari, uno degli accessi alla collina della Chinese University, si è combattuta una delle battaglie più violente nei cinque mesi di protesta di Hong Kong. Ne restano i segni, detriti anneriti ovunque, ombrelli divelti, candelotti di lacrimogeni. I poliziotti ne hanno lanciati centinaia, molecole pungenti ristagnano in aria: «Neanche le maschere antigas bastavano, dovevo cambiare i filtri ogni cinque minuti – racconta Steve – mi sono beccato tre proiettili di gomma». Ma «chissenefrega» dei lividi, i ragazzi hanno vinto. Compatti a testuggine dietro le barricate in fiamme, tirando pietre e molotov, hanno difeso la loro università. Dopo aver tentato per ore di tenere il ponte la polizia se n’è andata. Così ora, mentre alcuni dormono per terra e altri mangiano, ci si dà il cambio per rinforzare le barriere. La rampa del cavalcavia è bloccata da una carcassa di auto, trascinata lì chissà come. Più su hanno costruito perfino dei muri con mattoni e cemento. Imparano in fretta: «Complimenti per la laurea ribelli di Hong Kong», dice una scritta sul muro.
Si studia resistenza alla Chinese University, uno degli atenei più prestigiosi della città diventato roccaforte del movimento per la democrazia. Il consiglio accademico ha sospeso i corsi fino a dicembre, gli studenti della Cina continentale sono stati fatti evacuare in fretta mercoledì, il governo di Pechino li considerava in pericolo. Restano centinaia di “hongkongers”, che da tre giorni vivono e dormono dentro lo splendido campus stile americano, arroccato su uno dei ripidi e verdissimi pendii della baia. Da martedì la polizia non è più tornata, occupata a sgomberare strade in altri quartieri. Ma i ragazzi in legging e maglietta nera, giovani e flessuosi Diabolik, si preparano a un nuovo assalto. Non ci sono leader, ormai si sa, ma gruppetti che circolano su e giù, provando a dividersi i compiti via chat.
La palestra è diventata infermeria, una lavagna dice che sono presenti due medici e 18 infermieri. Qualcuno si improvvisa chef e gestisce la mensa: «Lasciate qualche soldo o cucinate per gli altri». Il deposito di attrezzi sportivi è l’armeria: ragazzini e ragazzine girano con mazze da cricket o baseball, giavellotti e archi. All’occorrenza le frecce si possono incendiare, come fa Jennifer Lawrence in Hunger Games. E poi le molotov, centinaia. Sotto parcheggi e pensiline, al sicuro dal sole che potrebbe far esplodere la santabarbara, svuotano bottiglie di birra e le riempiono di liquido infiammabile. «Non per attaccare, ma per difendere», assicura uno. Solo che a Hong Kong è sempre più difficile capire chi provoca e chi reagisce. Dice la polizia che dal ponte numero 2 i ragazzi buttano sotto di tutto, bloccando la linea Est della metro e l’autostrada verso Nord, due arterie fondamentali. È la nuova tattica di sabotaggi multipli e continui, che da giorni ha mandato in tilt i trasporti, costringendo il governo a chiudere le scuole. Secondo i giovani invece ciò che interessa alla Cina sta in un bunker pieno di server sotto il loro campus, uno degli snodi più importanti al mondo del traffico Internet, quello che fa funzionare la Rete di Hong Kong.
O forse è il fatto che le università sono cuore e cervello della protesta: tra i 4 mila “rivoltosi” fermati, il 40% sono studenti. E una delle ultime zone franche, ora che gli agenti arrestano pure in centri commerciali e chiese. «È l’ultimo posto dove ci sentiamo liberi», dice una ragazza di Medicina. Non solo la Chinese University, tutti i campus si stanno blindando in attesa della retata finale: Hong Kong U, PolyU. La polizia le definisce «armerie», ma si azzarderà a caricare? Rischia di essere una strage, la vera fine di Hong Kong come la conoscevamo. Al momento l’obiettivo sembra essere prenderli per sfinimento, ma neppure questo sarà facile.
Sulle stradine laterali che portano al campus file di auto scaricano rifornimenti per i ragazzi. «Sono un ex alunno, devo aiutarli», dice un programmatore 39enne con la coda di cavallo. Porta un sacchetto di noodles istantanei, altri acqua, vestiti, tende da campeggio, assorbenti, repellenti contro le zanzare e sì, anche taniche di cherosene per le molotov. Arrivano fino ai piedi della collina, poi da lì delle staffette in moto salgono ai cancelli. Dentro ci pensano i ragazzi con bici e carretti a smistare nel campus. Se molti cittadini non ne possono più della violenza, tanti altri restano con loro, contro il governo e la polizia.
All’ingresso principale, pure barricato, il viavai è continuo. Una decina di studenti di Taiwan con i trolley, mogi per il semestre perso, esce e si avvia all’aeroporto. Una fila invece aspetta di entrare, il servizio d’ordine controlla gli zaini per assicurarsi che non si infiltrino agenti in borghese. Dentro, a fianco a un gruppetto che gioca a basket, una ragazza ha disegnato su un cartone la mappa del campus, discutendo con i compagni quale delle cinque entrate sia più vulnerabile. «Abbiamo un pullman dell’università con cui portare i ragazzi da un fronte all’altro», spiega. Almeno finché i due autisti improvvisati, studenti pure loro, non bruceranno la frizione. A volte sembra un gioco, ma non lo è. Cinque anni dopo, la festa colorata di Occupy Central è più simile a un accampamento militare. Se la polizia tornerà, tornerà in massa. E se la priorità, come ha detto ieri Xi Jinping, è «riportare l’ordine a Hong Kong», prima o poi tornerà: il ponte numero 2 sopra l’autostrada va ripreso. «Combattere è meglio che stare in attesa – dice un 20enne sorridendo sotto la balaclava – li aspettiamo».