Corriere della Sera, 15 novembre 2019
Il Mose è costato il triplo dell’autostrada del Sole
«E mai nessuno che alzasse la mano per dire no, così non va». Mette i brividi, a rileggerlo oggi, lo sfogo di Lorenzo Fellin, ingegnere padovano docente di impiantistica, dopo essere stato costretto a sbattere la porta per avere espresso dubbi pesantissimi sulle cerniere che il Consorzio Venezia Nuova aveva deciso di far costruire per il Mose.
Sia chiaro: la barriera di paratoie sommerse alle bocche di porto della laguna, al di là dei ritardi, degli imbrogli, degli arresti, dei dubbi dello stesso Raffaele Cantone che proprio a quelle cerniere e a un possibile conflitto di interessi ha dedicato la sua ultima relazione da commissario dell’anticorruzione, non può essere indicata come l’unica responsabile di tutto.
Basti leggere, nel suo libro SoS laguna, l’invettiva dell’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos contro la sola ipotesi di un ampliamento del Canale dei petroli e altri canali per favorire le Grandi Navi: «Preoccupano al riguardo recenti prese di posizione dell’Autorità portuale, che punta i piedi per intervenire sul canale navigabile dragando e allargando qualche tratto a proprio piacimento, mai ma proprio mai pensando che si debbano in primo luogo attuare con precedenza assoluta gli interventi da tempo richiesti per neutralizzare gli effetti morfodinamici sulla laguna del più devastante misfatto idraulico del Novecento». Così è definito, per i danni alla morfologia del delicatissimo ambiente lagunare, quel largo e profondo canyon scavato per far passare le petroliere perfino dopo l’alluvione del ‘66: il «più devastante misfatto idraulico del Novecento».
Guai, se il Mose diventasse il capro espiatorio, unico, di tutti gli errori commessi. Parallelamente alle cose da fare e da non fare per non causare altri disastri, però, il problema del Mose resta comunque, oggi, il nodo centrale: ma come l’hanno costruito? Con quali scelte tecniche? Quali materiali? Quali risorse umane? Da chi ha speso complessivamente per il progetto e i lavori di contorno quasi il triplo del costo dell’intera Autostrada del Sole, i cittadini hanno diritto di pretendere una certezza: che per salvare con quella massa enorme di denaro la più bella e delicata città del pianeta siano stati usati i migliori ingegneri del mondo, i migliori idraulici del mondo, i migliori scienziati del mondo, le migliori maestranze del mondo, i migliori materiali del mondo. Ma non è andata così.
Dice tutto, appunto, quello sfogo che Lorenzo Fellin affidò sei anni fa (quando la data di consegna era stata già spostata in avanti per l’ennesima volta fino al 2015: campa cavallo!) ad Alberto Vitucci de La Nuova Venezia: «In tutte le riunioni a cui ho partecipato non ci sono mai stati interventi critici, qualcuno che alzasse la mano per dire no così non va. In fondo era quello il nostro compito, controllare. Molti avevano anche progetti che andavano in discussione. O erano consulenti delle imprese del Mose o di imprese ad esse collegate».
Prendiamo le cerniere alle quali sono agganciate le paratoie. «Le cerniere sono l’oggetto in assoluto più importante del Mose. Se fallisce quello, fallisce il progetto», spiegherà il docente di impiantistica, già prorettore all’Edilizia all’Università di Padova, al processo nell’aprile 2017 per le tangenti sui «cassoni». Denunciando che la scelta di quelle cerniere era stata cambiata in corsa «non» per motivazioni scientifiche: all’inizio era previsto che dovessero essere cerniere con la «fusione di ghisa», poi con «la lamiera saldata».
Il Consorzio Venezia Nuova, stando alla deposizione del docente, «sosteneva che il “saldato” era un passo avanti rispetto alla “ghisa”». Ma la sua sensazione era diversa. Dubbi? Tanti. Soprattutto dopo una telefonata ricevuta dall’ingegner Scotti della società di progettazione: «Mi avvertì che aveva avuto ordine dal Consorzio di presentare una perizia di variante che prevedeva appunto l’alternativa del “saldato”. Disse anche che si voleva assegnare il lavoro a un’azienda del Consorzio che non aveva la tecnologia per fare la fusione». Ma come: con tutti quei soldi in ballo venivano prima gli interessi di bottega?
Sì, rispondeva Lorenzo Fellin nell’intervista già citata: «Io ero l’unico esperto di impianti, chiamato a far parte del Comitato dalla presidente Piva. Dopo lunghi studi ero arrivato alla conclusione che non fosse opportuno costruire le cerniere saldando i due pezzi. La letteratura scientifica internazionale lo dice». Invece? «Avevano già scelto di farle saldate, affidandole alla Fip di Padova, acquistata dalla Mantovani specializzata in quel tipo di lavorazione». Come finì lo potete immaginare: «Uscii sbattendo la porta dopo una tesissima riunione del Precomitato».
Gli studi sulle cerniere del resto, studi affidati al professor Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all’ateneo di Padova, non sono mai stati rassicuranti. Spiegava una relazione riservata del 20 ottobre 2016, pubblicata su L’Espresso dallo stesso Vitucci e da Gianfrancesco Turano (querelati dalla Mantovani ma assolti giorni fa da una sentenza del gip romano Nicolò Marino: fecero solo il loro mestiere di giornalisti) che «la natura metallica non inossidabile del materiale prescelto con cui è stata realizzata la maggior parte dei componenti immersi rende quest’ultimo particolarmente vulnerabile alla corrosione elettrochimica provocata dall’ambiente marino».
Di più: «Abbiamo l’assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale né duratura, causa le abrasioni prodotte da sabbia e detriti». Insomma, un degrado sùbito preoccupante. Tanto più che la manutenzione era prevista soltanto dopo cento anni. Una scadenza che, anche alla luce di quanto è successo l’altra notte con l’acqua alta fino a 187 centimetri e il vento che infuriava, appare oggi ancora più strabiliante. Nella realtà, come è noto, la spesa per la manutenzione è già stata aggiornata più volte fino alla previsione di 60 e poi addirittura 80 milioni di euro l’anno. Una tombola. D’altra parte, insisteva Paolucci, in questa situazione «c’è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia».
Il nodo fondamentale, a leggere quella relazione di nove pagine ripresa anche da inGENIO-web.it, una rivista del settore gestita da ingegneri ed architetti, erano le «differenze sostanziali tra l’acciaio utilizzato per i test e quello poi utilizzato nella costruzione delle 158 cerniere. Il primo, scrive Paolucci, era acciaio inox superduplex prodotto dalle Acciaierie Valbruna di Vicenza. Il secondo invece – che proviene con ogni probabilità dall’Est – era di lega diversa e di costo ovviamente inferiore». Risultato: «Questa difformità della lega lascia qualche margine di dubbio sulla tenuta strutturale e anticorrosione nel tempo di questo importantissimo elemento strutturale». Per non dire di altri dubbi: «Viene da domandarsi se nel documento sulla manutenzione delle cerniere sia stata inserita l’ispezione subacquea periodica degli elementi femmina, anche se dubitiamo che una tale azione possa risultare sufficientemente accurata e minuziosa per finalità preventive».
Sono passati, da quella relazione, tre anni abbondanti. Con due acque alte violentissime nel novembre 2018 e tre giorni fa. E si fa strada, per quanto lo si voglia scacciare, un rovello angosciante: e se non l’avessero ancora provato, il Mose, perché non sono certissimi che possa funzionare davvero e che quelle cerniere siano all’altezza di uno sforzo titanico?