il Giornale, 14 novembre 2019
Dante omofobo, hater, misogino
Non si potrebbe più scriverlo, il Purgatorio. Nemmeno nel caso improbabile di esserne capaci. È la prima cosa che ho pensato durante la difficile arrampicata della seconda cantica, del Purgatorio commentato da Saverio Bellomo e Stefano Carrai (subentrato dopo la morte improvvisa del collega) e ora pubblicato nella raccolta einaudiana di classici italiani annotati (Einaudi, pagg. XLVIII – 650, euro 60).
Un libro impegnativo sotto ogni profilo, anche fisico: per incredibile vezzo antichista il volume si presenta intonso e chi non ha conservato il tagliacarte del nonno dovrà arrangiarsi come ho fatto io con un taglierino, sudando, imprecando e sfregiando senza rimedio le pagine.
Il concetto di peccato risulta all’uomo moderno difficilmente comprensibile. Per quanto riguarda il peccato di lussuria potrei togliere l’avverbio. Chi poi oggi dichiarasse meritevole di punizione ultraterrena la lussuria omosessuale dovrebbe prepararsi a subire la punizione terrena prevista per i cosiddetti omofobi. Dubito che la stessa encomiabile Einaudi pubblicherebbe un testo contemporaneo con simili affermazioni. Mi sovviene un dubbio: che le pagine attaccate siano una sorta di filtro, di freno, di preavviso alla stregua della scritta «Explicit Lyrics» su certi dischi dai testi spinti? Se nelle biblioteche esistesse ancora l’«Enfer», la sezione riservata ai libri proibiti, con le fisime attuali rischierebbe di finirci la Divina Commedia intera. Purgatorio da purgare? Già sono spuntate associazioni, i demoni del Bene come li chiama Richard Millet, che chiedono la rimozione del capolavoro dantesco dai programmi scolastici a causa di antisemitismo, islamofobia, omofobia, razzismo. Finora le censorie pretese sono state respinte ma io, sapendo che nelle università americane stanno cominciando a espellere William Shakespeare perché maschio e bianco, non sono tanto tranquillo. Però almeno per ora, almeno in Italia, protetto dal suo status di monumento nazionale oltre che di defunto da sette secoli, Dante può ancora mettere i sodomiti nel canto XXVI, facendogli gridare «Soddoma e Gomorra» affinché il lettore riconosca la loro macchia.C’è da dire che col sommo poeta non la sfanga nessuno, finiscono puniti un po’ tutti, non solo gli omo, anche i troppo etero, non solo gli avari, anche i prodighi, e perfino delicati personaggi come l’amico stilnovista Guido Guinizelli, colpevole (come spiega Bellomo) di una poesiola in cui immagina di baciare la bocca di una certa Lucia. «Dio vuol che l debito si paghi»: il ben poco misericordioso cristianesimo dantesco è talmente lontano dal cristianesimo bergogliano da sembrare, e forse da essere, un’altra religione. Un Alighieri che si fosse detto «Chi sono io per giudicare?» oggi sarebbe ricordato solo per il sonetto dedicato a Beatrice, «Tanto gentile e tanto onesta pare». A proposito: nel canto XXXII c’è un violento attacco verbale alla curia romana (l’odierno Vaticano), definita «puttana sciolta» come adesso non potrebbe permettersi di dire nemmeno Oliviero Toscani alla Zanzara.
Agli occhi di Dante per essere colpevoli non c’è nemmeno bisogno di praticare qualche vizio, è sufficiente essere nati nella città sbagliata. E per lui le città sbagliate sono moltissime. Nel Purgatorio si prende la libertà di insultare mezza Italia, ce l’ha con i casentinesi, con gli aretini, ovviamente coi fiorentini, con i pisani e poi con i romagnoli tutti. Facendo quello che a noi giornalisti e scrittori del 2019 è vietatissimo: generalizzare. Gli abitanti del Casentino sono «brutti porci», gli aretini «botoli ringhiosi», la valle dell’Arno è una «maladetta fossa», i romagnoli (bolognesi compresi visto che la Romagna dantesca comincia al fiume Reno) sono «bastardi», mentre Bertinoro, Bagnacavallo e Castrocaro meritano rapida estinzione. Certo, dietro c’è sempre una qualche motivazione politica, ma sarebbe come se io, antipatizzante di Luigi Di Maio, scrivessi che Pomigliano d’Arco deve sprofondare. Ci sarebbe una sollevazione, chiederebbero la mia testa al direttore, minaccerebbero querele, mi farebbero espellere dai social dandomi del deficiente e dell’ignorante: sarei invece un emulo del padre della lingua italiana. E se dicessi, che so, che le fiorentine sono tutte troie? Le querele partirebbero davvero. Dante l’ha detto, nel canto XXIII, definendole «sfacciate» e poi «svergognate», più impudiche delle impudiche femmine della «Barbagia di Sardigna» (oggi protesterebbe Michela Murgia), colpevoli di «andar mostrando con le poppe il petto» e di meritarsi perciò pene tremende.