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 2019  novembre 14 Giovedì calendario

Una bella biografia su Charles Dickens

Nel marzo del 1870, pochi mesi prima di morire, Charles Dickens fu chiamato a Buckingham Palace dalla regina Vittoria, per un colloquio. Lui la trovò «inaspettatamente timida» e «dai modi fanciulleschi», lei lo trovò «molto simpatico, dalla voce e dalle maniere gradevoli». Sua Maestà aveva 51 anni, e da trentatré regnava sul trono. Dickens ne aveva 58, e da trentaquattro era il re degli scrittori inglesi (Il Circolo Pickwick, il suo primo, strepitoso successo, uscì nel 1836). La regina e il romanziere parlarono del più e del meno: della servitù, dell’istruzione, del prezzo della carne, del sogno premonitore di Lincoln prima di morire, una ossessione di Dickens da quando gliene avevano parlato, durante l’ultimo viaggio in America. Forse lei gli offrì un titolo, forse no, forse lui rifiutò.
«Fu così che conversarono i due più grandi rappresentanti dell’età vittoriana, come se non fossero consapevoli del posto che occupavano nella storia del loro tempo» scrive Peter Ackroyd in Charles Dickens, la sua lunga e bellissima biografia dedicata allo scrittore inglese (pubblicata nel 1990, esce ora per la prima volta in Italia per Neri Pozza). Per la verità, secondo Ackroyd Dickens è addirittura un «pre-vittoriano», un precursore di quello che l’Inghilterra diventa nel corso del secolo. Nella vita di Dickens, nato in una famiglia quasi benestante e presto decaduta economicamente, a causa della gestione finanziaria dissennata del padre John, c’è la parabola di un ragazzo che vive in una «condizione di solitudine, isolato» dai suoi coetanei, come scrive dopo il suo trasferimento a Londra, a Camden Town, in un quartiere che definisce «malconcio, sordido, umido e sciagurato»; un ragazzo che parte dal basso e che, con la forza della sua volontà, raggiunge la vetta della scala sociale, il denaro, la fama, l’acclamazione da parte del pubblico. L’esistenza di Dickens porta a compimento l’ideale del progresso che muove l’Inghilterra vittoriana; ancora di più, nelle sue opere, come nella sua vita e nella irrequietudine che la pervade, nonostante le soddisfazioni continue, «c’è la stessa inconfondibile urgenza di contenere, comprendere e controllare tutto. In questo Dickens si dimostra figlio della propria epoca, l’uomo che, nella sua energica ricerca di una visione del mondo il più possibile completa, incarna lo spirito del tempo». Così spiega la sua filosofia professionale a una giovane collega, poche settimane prima della fine: «Si può solo andare avanti, ecco, lavorare finché è giorno». Volontà e responsabilità, mai mollare un colpo. Dickens rimane allo scrittoio fino all’ultimo, per concludere Il mistero di Edwin Drood. E, fino a marzo del 1870, continua a calcare le scene, per le sue letture al pubblico: un trionfo, che si conclude con l’ultima esibizione, una commovente lettura del Canto di Natale seguita dall’addio al suo amatissimo pubblico (la biografia di Ackroyd è un po’ dickensiana: anche qui può scendere una lacrima).
La gente, la «sua» gente, cioè i proletari, i poveri e i borghesi protagonisti dei suoi romanzi, adorava Dickens, e non mancò di mostrare il suo affetto allo scrittore, sia in occasione degli spettacoli, dove le file per i biglietti erano talvolta chilometriche, sia al suo funerale, che fu un vero e proprio evento. Del resto Dickens era un intrattenitore nato: fin da piccolo cantava sui tavoli delle taverne o per gli amici del padre, era un mimo e un imitatore eccezionale e, secondo uno dei figli, «un attore nato». Si preparava minuziosamente: per ogni lettura si esercitava almeno due mesi su ogni dettaglio, dai gesti alle espressioni, dalle intonazioni al tempo, cronometrato al secondo. Una volta lesse una delle sue storie di Natale, dedicata a un venditore ambulante, duecento volte. Dickens era superstizioso (non iniziava a scrivere se non aveva i suoi «strumenti» e i suoi soprammobili, e lasciava Londra ogni volta che finiva un romanzo), era in grado di creare ovunque, anzi, spesso viaggiava per farlo, ed era capace di sostenere un ritmo di lavoro impressionante: mentre scriveva Il Circolo Pickwick si era impegnato per la pubblicazione di cinque libri, era cronista parlamentare per il Morning Chronicle, preparava gli «schizzi» per un nuovo settimanale e manteneva l’impegno dei già celebri Sketches of London. In tutto questo, a un certo punto cominciò anche Oliver Twist, che, per un certo periodo, scrisse in contemporanea con Pickwick. Perché? Per i soldi, innanzitutto: Dickens era abilissimo a difendersi dagli editori, a sfruttare i diritti d’autore (un concetto quasi nuovo per l’epoca) e qualsiasi opportunità di spillare denaro, sicuramente per reazione alle difficoltà finanziarie patite da bambino. Fu proprio a causa di esse che il padre finì in prigione, e Charles si ritrovò, a dodici anni, a lavorare dieci ore al giorno in una fabbrica di lucido per scarpe, come uno dei piccoli protagonisti dei suoi romanzi. L’esperienza lo segnò al punto che non ne parlò mai con nessuno, tranne che con l’amico John Forster, il suo primo biografo. Il senso di abbandono e di umiliazione e il suo passato di sofferenze non lo abbandonarono mai: «A mano a mano che mi avvicino alla fine mi muovo in cerchio, sempre più vicino al punto di partenza» scrive in Racconto di due città. È l’infanzia, dice Ackroyd, la chiave per comprendere l’uomo, lo scrittore e la sua sintonia straordinaria con un popolo e un’epoca: una sintonia che lo ha reso popolare come nessun autore, oggi, potrebbe essere, nonostante le rosicature della critica snob (in questo, poco è cambiato...).