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 2019  novembre 14 Giovedì calendario

La crisi degli ultimi zuccherifici italiani

Non c’è solo la plastic tax a funestare lo scenario economico della via Emilia, che oltre a essere la culla del packaging tricolore è anche l’ultimo baluardo saccarifero del Paese, su cui inevitabilmente si ripercuoterà un altro balzetto sbucato fuori dal disegno di legge Bilancio 2020 per fare cassa, vestito con presunte finalità educative: la sugar tax sulle bibite zuccherate (10 euro a ettolitro e 25 centesimi per Kg di polvere impiegata). 
«Ci mancava giusto una nuova tassa, dopo il massacro dell’Ocm Zucchero che dal 2006 a oggi ha distrutto la filiera bieticolo-saccarifera italiana, trasformandoci da Paese autosufficiente a mercato che dipende per l’85% dall’estero; dopo il tracollo dei prezzi dello scorso anno a causa dell’iper-produzione di Germania e Francia che ci ha costretto a vendere sotto costo anche quel poco zucchero 100% made in Italy; e dopo un’annata che ha acuito i problemi del cambiamento climatico, con gli attacchi del lisso, insetto del Sud del pianeta che fa marcire la barbabietola, contro cui non siamo attrezzati». A parlare è Claudio Gallerani, presidente di Coprob, Cooperativa produttori bieticoli, l’unico presidio rimasto dello zucchero italiano, 5.500 agricoltori, 33mila ettari coltivati e due zuccherifici a Minerbio (la sede bolognese) e a Pontelongo (Padova). Erano 19 gli zuccherifici italiani attivi fino al 2005 e quasi 250mila gli ettari coltivati lungo lo Stivale, che producevano 1,6 milioni di tonnellate di zucchero l’anno e soddisfacevano l’intera domanda interna. Ora si oscilla tra le 250mila e le 280mila tonnellate l’anno, il resto del fabbisogno è importato, prevalentemente da tedeschi e francesi.
«La sugar tax è una misura controproducente sotto tutti i punti di vista – sottolinea Gallerani –. Innanzitutto l’esperienza degli altri Paesi europei che hanno già introdotto tassazioni sulle bevande zuccherine ci dice che i rincari non hanno affatto ridotto i consumi, hanno solamente danneggiato i produttori di zucchero. In secondo luogo, questi interventi fiscali sono addirittura controproducenti dal punto di vista educativo, perché non favoriscono un’alimentazione sana e consapevole bensì il ricorso a edulcoranti chimici di sintesi al posto di un prodotto naturale, coltivato nel nostro territorio con una filiera controllata. Il saccarosio, consumato in giuste dosi, è la sostanza zuccherina che l’organismo umano assimila meglio. Terzo, è totalmente irrazionale che il Governo con una mano aiuti la filiera italiana dello zucchero e con l’altro la penalizzi introducendo un’imposta», fa notare il presidente. Il riferimento è in particolare agli strumenti pubblici che dalla prossima campagna saccarifera 2020 aiuteranno la certificazione dei primi quantitativi di zucchero italiano sostenibile a marchio SQNPI (Sistema di qualità nazionale di produzione integrata, con 22 milioni di fondi Ue incanalati).
«Dopo anni di politiche europee che hanno ridimensionato il settore italiano minandone la sopravvivenza e data l’importanza di questo settore sia per gli imprenditori agricoli sia per le industrie alimentari, che assorbono l’80% dello zucchero italiano, servono strumenti di supporto non nuove imposte come la sugar tax», rimarca Carlo Piccinini, presidente Confcooperative FedAgriPesca Emilia-Romagna. I pochi che sono riusciti a sopravvivere nella bieticoltura stanno investendo per valorizzare l’eccellenza, tra sostenibilità e bio. «Le prime sperimentazioni sul biologico stanno andando molto bene: la cooperativa Coprob passerà da 1.300 a 2mila ettari di campi di barbabietole bio il prossimo anno e il prezzo dello zucchero bio è il doppio di quello tradizionale (per il 2020 è stato quotato 96 euro a tonnellata contro i 45 dello zucchero normale). 
Per i 17 zuccherifici che hanno chiuso, invece, le fortune sono alterne. C’è chi, come l’ex zuccherificio Eridania Sadam di Sissa Trecasali, nel Parmense, ha tentato la riconversione alla chimica, alleandosi con Bio-on per produrre bioplastica, ed ora è paralizzato dallo scandalo “plastic bubble” dell’ex unicorno di Borsa. E chi, come l’ex Sfir di Forlimpopoli, il più grande zuccherificio in Italia, trasformato poi in Butos Horeca per il confezionamento dello zucchero in bustine, sta rinascendo ora dal fallimento grazie a sei ex dipendenti che se lo sono aggiudicato all’asta investendoci Naspi e liquidazioni (un workers buyout supportato da Confcooperative) e in questo primo anno di piena attività, con 24 dipendenti (14 soci) e una nuova linea produttiva costata 900mila euro per lavorare 2mila bustine al minuto in tutti i formati, fatturerà 2,2 milioni con l’obiettivo di superare i 3 milioni nel 2020.