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 2019  novembre 14 Giovedì calendario

Il flop elettorale di Mussolini nel 1919

Con il senno di poi è facile, oggi, guardare al 1919 come all’inizio della irresistibile ascesa che, solo tre anni dopo, portò Mussolini alla conquista del potere. Solo con il senno di poi, però. Perché, per chi quell’anno lo visse davvero, niente in realtà lasciava presagire un simile esito. Il 16 novembre si tennero infatti le prime elezioni politiche a suffragio universale maschile. Si adottò il sistema proporzionale che permetteva ai partiti di contarsi, di conoscere le reali dimensioni che ciascuno aveva assunto nel tormentato scenario del Paese appena uscito dai massacri della Prima guerra mondiale. 
Nel gennaio di quell’anno don Luigi Sturzo aveva fondato il Partito Popolare Italiano; in marzo Benito Mussolini aveva dato vita ai fasci di combattimento. C’erano molte novità e la competizione elettorale sembrò subito una resa dei conti in cui erano molti a contendersi le spoglie di quel che restava dell’Italia liberale dell’anteguerra. 
La sconfitta dei liberali
Tra tutti, vinse il Partito socialista che conquistò il 32,4% dei voti e 156 seggi su 508. Era il partito più radicalmente antisistema, così come fuori dall’alveo della tradizione liberale si collocavano anche i seguaci di don Sturzo, arrivati secondi, con il 20,5% e 100 seggi. Il trionfo dei socialisti e dei popolari coincise con il netto declino dei liberali che - per la prima volta nella nostra storia unitaria - persero la maggioranza.
A quelle elezioni parteciparono per la prima volta anche i fascisti, presenti, però, con una propria lista solo a Milano. E il risultato fu devastante: appena 4.795 voti, contro i 170.000 dei socialisti e i 64.000 dei popolari nella stessa circoscrizione. Poco tempo prima, a D’Annunzio che, impegnato nell’avventura di Fiume, gli rimproverava una imbarazzante mancanza di iniziativa («Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime; e sgonfiatela») Mussolini aveva risposto mostrandosi apparentemente fiducioso: «Ci sarà un grande plebiscito per Fiume e gente nuova uscirà dai comizi elettorali». 
Quelle parole sembravano destinate solo a calmare le impazienze del Poeta-soldato, perché, in realtà, Mussolini era consapevole sia dell’isolamento sia dello scarso peso elettorale del suo movimento: «E allora noi fascisti dobbiamo affermarci da soli, dobbiamo uscire distinti, contati e, se saremo pochi, bisognerà pensare che siamo al mondo da pochi mesi soltanto», aveva affermato al congresso fascista di Firenze del 9 ottobre 1919. Pure la batosta subita, proprio nella città del «fascio primigenio», era troppo vistosa per non lasciare strascichi pesanti. Gli avversari presero a sbeffeggiarlo: «Un cadavere in stato di putrefazione fu ripescato stamane nel Naviglio, pare si tratti di Benito Mussolini», scrisse allora l’Avanti! 
«Niente c’è di definitivo»
Subito dopo, in seguito a una perquisizione nella sede dell’Associazione Arditi e al ritrovamento di alcune armi da guerra, il 18 novembre Mussolini, assieme ad altri dirigenti del movimento, fu addirittura arrestato; è vero, fu scarcerato quasi immediatamente, ma il significato simbolico dell’episodio entusiasmò gli avversari, deprimendo i suoi sostenitori.
La riflessione mussoliniana sulla sconfitta, pur con acute intuizioni su alcune fragilità della vittoria socialista (la frammentazione in tante correnti, la sproporzione tra l’ampiezza del consenso elettorale e la scarsa capacità di mobilitazione dei militanti) appariva soltanto consolatoria: «Niente c’è di definitivo al mondo», scrisse il 21 novembre 1919, «ma le cose meno definitive sono le vittorie elettorali».
Sembrava la fine. E invece...
Sembra un monito molto attuale per chi oggi è ebbro di voti; allora, però, era solo il segnale di una marcata subalternità politica, ribadita dallo stesso Mussolini pochi mesi dopo: «ritorniamo all’individuo» scrisse infatti il 1° gennaio 1920: «Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni». 
Era troppo poco, la doppia eresia non affascinava nessuno, i fasci si sfaldavano - ne sopravvissero una trentina -, Il Popolo d’Italia, il giornale del movimento, entrò in crisi, salvato in ultimo dall’intervento interessato di un gruppo di armatori liguri. Era davvero la fine: questa, almeno, fu allora l’impressione prevalente. E invece... Tre anni dopo, l’«eretico» aveva stretto un patto con il «Vaticano di Roma», con la Monarchia, con il potere economico, con i ceti più forti e più conservatori, e su quel patto aveva costruito la marcia vittoriosa che si sarebbe conclusa il 28 ottobre 1922.