la Repubblica, 14 novembre 2019
In morte di Raymond Poulidor
Ospedale di Rouen, primi di novembre del 1987. Poulidor va a trovare Anquetil, devastato da un cancro allo stomaco. Sono diventati amici, da quando hanno smesso di correre. Parlano un po’ dei vecchi tempi, poi Poulidor saluta ma quand’è sulla soglia Anquetil lo richiama: «Raymond, anche stavolta arriverò prima io». Questo episodio Poulidor l’ha raccontato spesso, e ogni volta non riusciva a impedirsi di piangere. Come è accaduto per Coppi e Bartali, è impossibile parlare di Jacques senza parlare di Raymond, morto ieri a 83 anni. Anquetil, il 18 novembre ’87, a 53. Per tutti i francesi, Poulidor era Poupou, parola che mi è sempre andata di traverso, è un nome da barboncino, non da campione. La uso adesso che è morto, ma a lui stava bene, e poi in Francia va così: Trousselier era Troutrou, Cristophe era Cricri, Pingeon Pinpin, Jalabert sarebbe stato Jaja. Lo chiamavano anche l’eterno secondo, ma pure qui era stato preceduto da un italiano, Tano Belloni. Lui a fine carriera cercava di smussare: «Non esageriamo, ho fatto più vittorie che secondi posti». Sì, e anche di rilievo: sette tappe al Tour, una Vuelta, una Sanremo, due Parigi-Nizza, una Freccia Vallone, cinque volte il Critérium national e ancora Delfinato, Gp delle Nazioni. Tutta una carriera senza cambiare maglia, quella gialloviola della Mercier. Il suo ds era Antonin Magne, vincitore di due Tour, campione del mondo nel 1936. Alle corse vestiva sempre uno spolverino bianco, sembrava un farmacista, era molto all’antica. Ai suoi corridori dava del voi, li invitava a sacrificarsi sempre e non peccare mai.
La biografia di Poulidor ha per titolo: La gloire sans maillot jaune. Ecco il punto dolente, ma anche, nel limite, la grandezza. In 14 Tour, nemmeno mezza giornata in maglia gialla. Non a Parigi, da nessuna parte. L’hanno indossata cani e porci, con tutto il rispetto. Lui ci è andato vicino due volte, nei prologhi a cronometro: nel ’67 ad Angers fu preceduto di 6” da Errandonea, nel ’73 a Scheveningen di un solo secondo da Zoetemelk. Per 14 Tour ha sognato e inseguito la maglia gialla. Ha corso con Bobet e Bahamontes, Anquetil e Gimondi, Merckx e Hinault. È salito 8 volte sul podio a Parigi, la prima nel ’62, l’ultima a 40 anni nel ’76. Tre volte secondo, cinque terzo. Per chi non l’avesse visto pedalare, dirò che somigliava abbastanza a Bartali, ma con meno rabbia agonistica. Decisamente più forte a cronometro (quasi come Anquetil, quasi), forte in salita. Generoso, in sella dai primi di marzo al Lombardia. Sempre con una squadra più debole rispetto a quella del rivale (come Bartali). In più, battuto in circostanze imprevedibili: per esempio da un giovane Gimondi che al Tour nel ’65 nemmeno doveva andarci, ci andò per l’infortunio di un gregario, Fantinato, e sappiamo come finì. O, ancora, nel ’66, dopo che Anquetil, in crisi, gli aveva detto a Torino: «Raymond, ti annuncio che oggi ho perso il Tour». Vero, salvo poi spedire in fuga il suo luogotenente, Lucien Aimar, che quel Tour lo vinse beffando Poulidor. Che a Parigi andò furente verso Anquetil chiedendo spiegazioni. E l’altro, serafico: «Ti ho detto che avevo perso il Tour, non che l’avresti vinto tu».
Nel vocabolario dei francesi è entrata la parola poupoularité, perché nelle sue sconfitte, dovute a tranelli o a una jella pazzesca, cosmica, roba che nemmeno Paolino Paperino, c’era la grandezza di Ettore che soccombe ad Achille, al destino cinico e baro, alle congiure, alle stelle contrarie. Della rivalità con Anquetil il punto più alto è la tappa del Puy de Dôme, Tour 1964. Sul vecchio vulcano, in fuga c’è Jimenez, l’orologiaio di Avila, ma non se lo fila nessuno. Il duello è tra Maître Jacques, maglia gialla, e Poupou, a 56”. Orgogliosamente, pedalano per tutta la salita affiancati, nessuno mette nemmeno mezza ruota davanti all’altro. Anquetil a testa scoperta, sul lato della roccia, Poupou col berrettino sul lato del vuoto. Tappa di 239 km, caldo,sforzo spaventoso che li fa storcere e sbandare. Poulidor prende il largo, guadagna 42”. «Quanto mi rimane?» chiede oltre il traguardo Anquetil al ds Geminiani, che abita da quelle parti dopo che la sua famiglia ha lasciato la Romagna perché nel mirino dei fascisti. «Hai ancora 14 secondi». «Me ne basta uno». Tanto, c’è ancora la crono finale. Qui Anquetil rivelò uno dei suoi lati più nascosti: la capacità di andare fino in fondo alla sofferenza, se era proprio indispensabile. Altrimenti, sapeva gestire le corse e fare abbassare la cresta ai ribelli. “Le patron du peloton”, lo chiamava Poulidor. Vero. Se Anquetil prendeva una cotta, come sull’Envalira, trovava molti gregari con altra maglia. Se la prendeva Poupou, affari suoi. Diceva Geminiani, che conosceva Anquetil più d’ogni altro, esclusa Janine: «Mi sembra incredibile che Jacques abbia vinto cinque Tour senza mai passare per primo in cima a una salita». A ds scambiati (Geminiani al posto di Magne) credo che Poulidor avrebbe indossato non solo più volte la maglia gialla, ma vinto anche un Tour, almeno. Perché la lotta tra lui e Anquetil, per i francesi, non era solo ciclistica, ma tra l’antico e il moderno, tra il divo e l’antidivo, tra il poligamo e il monogamo (semplifico per motivi di spazio), tra chi beveva acqua e chi champagne, tra chi faceva tanto e otteneva relativamente poco e chi faceva in apparenza poco e faceva saltare il banco, tra il caldo e il freddo, tra il generoso e l’altero. Poupou, per la cronaca, nasce dalla penna di un giornalista comunista, Emile Masson dell’Humanité. Ma destra e sinistra, cruciali nello scontro coppiani-bartaliani, qui c’entrano fino a un certo punto. Philippe Delerm, uno scrittore che ama la bici, ha detto: «Ho vissuto il poulidorismo come un valore di sinistra. La vera sinistra, quella che non può vincere, perché ogni vittoria sonante è l’inizio di un compromesso, d’un malinteso e di un sospetto».
In quel Tour del ’64 Poulidor perse 4’ per incidenti meccanici nelle crono e 1’ per colpa sua: a Monaco arrivò sul traguardo a braccia alzate, ma c’era ancora da percorrere un giro di pista. Anquetil lo sapeva, e con la vittoria guadagnò un minuto d’abbuono. E vinse il Tour con 55” di margine. Al Parc des Princes si stropicciarono gli occhi tutti gli spettatori, increduli: quei due che non si rivolgevano la parola, che si odiavano, si stavano abbracciando come fratelli. Da giovane cronista, avevo visto Poulidor versare una bottiglia di aceto rosso in una vasca d’acqua bollente e nella sua camera d’albergo ero entrato spesso, perché nel bene o più spesso nel male (per lui) c’era sempre qualcosa da scrivere. Da anziano cronista è capitato che andassimo a farci un bicchiere fuori dalla sala-stampa. Capelli bianchissimi, sempre popolarissimo, e saggio. «La mia sfortuna è stata la mia fortuna. La gente mi vuole bene. Il mio orizzonte era il bordo del campo da lavorare. Col ciclismo ho girato il mondo, ho conosciuto persone straordinarie. Non ho nessun rimpianto». Mai con una maglia gialla addosso quando correva, sempre con una maglia gialla da uomo-immagine del Crédit Lyonnais, che sponsorizza il trofeo, da quando aveva smesso di correre. Per l’aceto, poi mi ero informato da mia zia Onorata. Mi disse che, quand’era mondina in Lomellina, anche lei metteva l’aceto nell’acqua del pediluvio, per attenuare i dolori alle gambe. Contadino era nato Poulidor, nel villaggetto di Masbaraud-Mérignat, sul pianoro di Millevaches. Era vissuto ed è morto a St.Léonard-de-Noblat, dove già si svolgevano due pellegrinaggi: uno sulla tomba di san Leonardo, raccomandato contro la sterilità femminile, e uno a casa di Poulidor, che un autografo, un sorriso e una stretta di mano non li ha mai negati a nessuno. A carte, bisogna dire, ha sempre battuto Anquetil. E suo nipote, Mathieu Van der Poel, vincerà anche per lui. Gli sia lieve la sua terra. Colonna sonora: Chanson pour l’auvergnat di Georges Brassens.