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 2019  novembre 14 Giovedì calendario

Le 26 parole che uccisero Internet

È la storia di come ventisei paroline vergate ventitré anni fa hanno creato la rete così come la conosciamo oggi. Soprattutto i social network che, senza quell’immunità, non sarebbero mai diventati ciò che sono. È anche la storia della spettacolare eterogenesi dei fini di una norma nata per limitare il porno e finita per sdoganare anche il revenge porn. Così, mentre da noi volano gli stracci su una proposta di identificare chiunque voglia dire la sua su Facebook e compagnia, abbiamo intervistato Jeff Kosseff, giurista alla US Naval Academy e autore di The Twenty-Six Words that Created the Internet. Ovvero il paragrafo della sezione 230 del Communications Decency Act del 1996 che recita: «Nessun fornitore o utilizzatore di un servizio interattivo telematico sarà trattato come un editore o un portavoce delle informazioni prodotte da un altro fornitore di contenuto». Per cui se qualcuno fa un tweet maledicendo il fatto che Liliana Segre sia sopravvissuta alla Shoah non ce la possiamo prendere con Twitter.
Professore, si voleva limitare la diffusione di contenuti osceni mentre si è finiti col rendere irresponsabili le piattaforme di quasi tutto. Come è stato possibile?
«Ci furono vari casi di cronaca, tra cui quello di Jordan Belfort, l’ispiratore del "lupo di Wall Street", accusato su Prodigy, popolare provider internet, di essere un furfante. Belfort fece causa e un giudice condannò la piattaforma perché, a differenza della concorrente CompuServe che non metteva becco in ciò che gli utenti scrivevano, essa decideva ciò che fosse o meno pubblicabile».
È il colmo. La menefreghista CompuServe graziata in quanto edicola, Prodigy che provava a moderare i contenuti mazziata come un editore…
«Proprio questo paradosso colpì il repubblicano Chris Cox e il democratico Ron Wyden. Non volevano che quel tipo di responsabilità automatica diventasse un boomerang, un incentivo per le piattaforme internettiane ad astenersi dal moderare ciò che veniva diffuso attraverso di loro. Così nacque la sezione 230».
Oggi Wyden assicura che la loro legge voleva essere «uno scudo e una spada». La prima parte è chiarissima, dal momento che nessuno può punire YouTube se ospita decapitazioni, stupri e bestialità varie, mentre la spada è stata usata poco, o sbaglio?
«Non sono d’accordo. La spada viene usata dietro le quinte dalle migliaia di moderatori che queste aziende impiegano. Cassano una quantità spropositata di contenuti mostruosi e di hate speech e lo fanno in buona fede, secondo regole autoimposte, perché la legge glielo consente. Che poi ci sia un enorme margine di miglioramento, è senz’altro vero. Ha presente il deepfake in cui fanno passare Nancy Pelosi per un’ubriaca? È un video che può distruggere la reputazione di una persona, ma non l’hanno rimosso accontentandosi di aggiungergli la piccola dicitura che è un falso. Serve più coraggio».
Quel video girava molto e la viralità è il motore dei social. Non crede che, senza la sezione 230, il web 2.0 non sarebbe mai nato?
«Senz’altro non nella forma odierna. Non è un caso che tutte le piattaforme di maggior successo siano nate qui. Dubito che in Europa la legge avrebbe consentito loro la stessa immunità».
Però il dibattito sulla possibile modifica di quella norma è incandescente anche da voi: quali fatti l’hanno innescato?
«Qualche anno fa si scoprì che Backpage, un sito di annunci, era coinvolto nel sequestro di minori venduti come schiavi sessuali. Un caso che ha portato, nell’ottobre 2018, alla prima eccezione alla regola dell’irresponsabilità: se i siti consapevolmente facilitano il traffico sessuale vanno considerati colpevoli».
Da allora le critiche si sono moltiplicate. Sia il repubblicano Ted Cruz che la democratica Pelosi hanno definito la legge un "regalo" a Big Tech che va riconsiderato. È l’inizio della fine?
«Non credo che si arriverà a una revoca completa, quanto a una modifica parziale. Va ricordato che i repubblicani lamentano un eccesso di censura (contro di loro) mentre i democratici un difetto, il fatto che pochi contenuti offensivi vengano rimossi. C’è accordo sulla necessità di una modifica, ma non su come farla».
C’è chi dice che qualsiasi intervento, anche minore, rischia di menomare la democrazia online.
Ricordo che la democrazia esisteva, e per certi versi funzionava meglio, prima dei social…
«Sì ma non possiamo sottovalutare il loro peso sul discorso pubblico.
Quando ero cronista io, quel ruolo era dei giornali mentre oggi la carta è sempre più debitrice dei social».
Lei stesso scrive che la norma dà «una voce agli oppressi» e cita il #MeToo come movimento che forse non sarebbe esistito altrimenti: in che senso?
«Nel senso che, se fossero state responsabili come un editore, le piattaforme avrebbero cancellato molte delle accuse che hanno dato il via a quella campagna».
Non ne sono convinto. Da noi però oggi si litiga sulla proposta di subordinare l’accesso ai social all’esibizione di un documento d’identità: che ne pensa?
«Il mio prossimo libro sarà dedicato al discorso anonimo in rete. In America è una tradizione che risale ai Federalist Papers che Hamilton e Madison firmarono con lo pseudonimo Publius per timore delle conseguenze. Il motivo per cui è molto difficile risalire al vero nome di qualcuno che ti diffama online ha a che fare con quella cultura. Capisco la logica dietro a proposte che chiedono di fornire la vera identità perché i troll stanno diventando un problema sociale significativo. Purtroppo i criminali più scaltri riusciranno comunque a cavarsela mentre la misura potrebbe raffreddare la libertà di espressione di tutti gli altri. Pensi a qualcuno che ha una malattia e vuole fare domande in un forum: magari con nome e cognome si vergognerebbe. È questione di trovare un bilanciamento tra protezione e libertà. E non è affatto facile».