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 2019  novembre 13 Mercoledì calendario

Montolivo si ritira. Intervista

 «Io mi fermo qui». Pomeriggio pioggia, Riccardo Montolivo dice che del calcio come professione ne ha abbastanza. Giocherà con la figlia Mariam e il piccolo Mathias. Riccardo è nato il 18 gennaio 1985, a Milano, dove lavorava papà, medico anestesista. «E qui resto a vivere, con la mia famiglia, cosa farò adesso non lo so, devo pensarci». Eppure un po’ di tempo lo ha avuto. Perché ci sono numeri che riempiono la sua carriera di calciatore: 2 anni all’Atalanta, 7 alla Fiorentina dove al braccio portava la fascia di capitano. Altrettanti al Milan, dove ha ricoperto pure lo stesso ruolo. E 66 presenze e 2 reti in azzurro, con i c.t. Lippi, Donadoni, Prandelli, Conte e Ventura. Poi c’è un finale che sembra non trovare risposte: smetto, ma non so perché, non capisco cosa sia successo. Niente, neppure una partita per spiegare se Montolivo fosse al capolinea oppure no. Come se il suo calcio fosse stato anestetizzato il 13 maggio 2018, Atalanta-Milan.
Resterà la sua ultima partita da professionista?
«Sì. In quello stadio, avevo esordito in A con l’Atalanta, contro il Lecce, nel 2004».
Sono passati più di 15 anni. Ricorda come dormì la notte prima?
«Poco, soprattutto perché all’epoca il mio compagno di stanza in ritiro era Gautieri. E con lui si dormiva poco».
Altre notti, date, partite e spartiacque: sabato 22 dicembre, 2018. Milan-Fiorentina finisce 0-1, Gattuso preferisce avanzare un terzino davanti alla difesa (Calabria) piuttosto che far giocare lei. Quella notte lei non ha dormito per la rabbia?
«No, a quel punto mi sembrava palese che il problema non fossi io. E che le risposte alle mie domande non sarebbero mai più arrivate».
Non ha fatto niente?
«Ho parlato con il tecnico. Mi ha detto che i miei dati nei test non erano al livello dei miei compagni. Come sarebbe stato impossibile visto che fino a metà novembre non mi è mai stato concesso di allenarmi con il gruppo. Per giustificare la mia chiamata, poi, Gattuso fece riferimento all’indisponibilità di Brescianini e Torrasi, due Primavera. Quasi dovesse scusarsi».
Che succedeva quando lei arrivava all’allenamento?
«Dopo il “torello” con la squadra, venivo invitato ad allenarmi, spesso solo, altre volte con Halilovic, o con i giovani della Primavera».
Cos’è successo con Gattuso?
«Per me nulla, ma non sono riuscito a spiegarmi questa situazione e non ho mai avuto risposte».
Un avvio difficile quello del vostro rapporto?

«No, anzi. Nel novembre 2017, quando sostituì Montella, Gattuso chiamò me e qualche altro giocatore più esperto per chiedere e ottenere il giusto sostegno».
Lei da qualche mese non era più il capitano del Milan.
«Dall’estate precedente, allenatore Montella, d.s. Mirabelli. Sono loro che dopo l’arrivo di Bonucci mi dicono che avrei dovuto cedergli la fascia di capitano. Rispondo che non mi sembrava una buona idea, perché il Milan era un grande club, aveva equilibri delicati, altri compagni come Bonaventura avrebbero svolto meglio quel ruolo e comunque la decisione doveva essere presa nello spogliato».
Loro che risposero?
«Che non c’era discussione, era la scelta dell’allora presidente Yonghong Li. Stessa risposta che ebbi da Bonucci».
Quindi non fu lei ad andare a consegnarli la fascia?
«No».
Nel 2017 uno dei colpi di Mirabelli è l’arrivo di Biglia. Finisce per questo la carriera milanista di Montolivo?
«Se così fosse stato, nessuno me lo ha mai detto. Biglia era un acquisto importante».
Ha solo un anno meno di lei...
«Non discuto di questo. Poteva starci un cambio delle gerarchie, lui titolare e io a giocarmi il posto».
Altro strappo, fine luglio 2018: perché non parte con i compagni per gli Usa?
«Non mi venne mai spiegato. I dati di Milan Lab confermarono la mia ottima condizione, ma evidentemente non era questo il problema. La decisione mi venne comunicata dal team manager, con un sms il giorno prima della partenza».
Ne parlò anche con la nuova dirigenza?
«Ne ho parlato anche con Leonardo e Maldini, tutti mi dissero che ero diventato la terza scelta, che dovevo capire. Ma era un senso di ignavia, la cosa che più mi deprimeva. Poi, dopo l’episodio di Milan-Fiorentina, mi è sembrato chiaro che non fossi più la terza scelta. Forse ero diventato la nona».
Altra data chiave: 9 maggio 2018, finale di Coppa Italia con la Juve. Lei entra sul 4-0. Che ha pensato?
«Non era certo una manifestazione di stima e affetto».
Però lei è rimasto, ha capito.
(Sorriso, amaro) «Sono rimasto per motivi diversi. A fine luglio, dopo la non convocazione per la tournée, mancavano una manciata di giorni alla fine del calciomercato, che quell’estate chiudeva a Ferragosto».
Nel gennaio successivo?
«Era iniziato uno stillicidio di voci. Io stavo bene, sto bene, ma qualcuno iniziava a non crederci: come se non si volesse contraddire il Milan e puntare su di me. Comunque sia chiaro: non ho mai rifiutato un trasferimento».
È arrivato nel posto giusto al momento sbagliato, diventando il capitano-simbolo della decadenza milanista?
«Forse, dieci giorni dopo vennero ceduti Ibra e Thiago Silva. E poi ripenso al gol nel primo derby: bello, davvero, ma annullato, per un fallo inesistente. Magari era un segnale».
Quando incontrerà Gattuso cosa gli dirà?
«Credo nulla, magari lo saluterò. Però ricordo che lui mi disse, “io non avrei reagito come te a questa situazione”. Evidentemente siamo diversi».