Corriere della Sera, 13 novembre 2019
La mostra di Steve McQueen con 76.000 bambini
Oltre 76.000 bambini che guardano l’obiettivo: chi in un museo si aspetta di immergersi in un silenzio contemplativo per i prossimi sei mesi potrà assaporare, alla Tate Britain, un’esperienza diversa. I soggetti delle fotografie in mostra sono scolari della seconda elementare di tantissimi istituti londinesi. Ognuno di loro è stato invitato a visitare e visionare il progetto di Steve McQueen, genio creativo capace di vincere l’Oscar per «Dodici anni schiavo» così come il Turner Prize per la sua arte.
Circa 1.000 scuole si sono già prenotate. Il direttore di Tate Britain, Alex Farquharson, prevede l’arrivo di circa 500 bambini al giorno e una trasformazione radicale dell’atmosfera all’interno del museo. «I soffitti sono alti, l’effetto acustico sarà notevole». L’allegro e rumoroso chiacchiericcio dei giovanissimi visitatori, nonché il suo impatto sul museo, non sono però l’aspetto che più interessa il direttore o l’artista: la mostra è intesa come un modo nuovo di capire, vivere e apprezzare l’arte, una breccia, colorata, energica, vivace, curiosa e prepotente, come solo l’infanzia sa essere, nelle barriere sociali ed etniche che ancora oggi definiscono il panorama culturale, del Regno Unito e non solo.
Il tutto nasce in parte da un ricordo, quello della prima visita a un museo di McQueen, portato dai genitori alla National Portrait Gallery di Londra. «I soli volti neri – spiega – erano quelli degli uscieri». Nei 40 anni trascorsi da allora, la situazione è cambiata, ma fino a che punto? «Quanti sono gli artisti di minoranze etniche? E quanti vengono esposti dai grandi musei?». I bambini delle fotografie rappresentano tutti i colori, le religioni e le tradizioni della capitale britannica: 3.128 immagini del multiculturalismo della città.
Per Farquharson è un messaggio importante: «Tate Britain è la galleria nazionale d’arte britannica. Il nostro compito non è solo quello di rappresentare gli artisti di questo paese, ma anche di contribuire al dibattito sull’identità nazionale, passata e presente. In questo contesto è emozionante incontrare sulle nostre pareti lo sguardo di decine di migliaia di giovani londinesi».
L’altro concetto che ha ispirato McQueen è una teoria in voga oggi tra gli educatori: non puoi diventare ciò che non vedi. Servono esempi e modelli che permettano a tutti i ragazzi, di ogni estrazione, di sognare, sperare, ambire. In questo senso la mostra, che si intitola «Year 3» (il terzo anno della scuola britannica, che in Italia sarebbe la seconda elementare), centra più obiettivi.
Chi firma le foto ha la pelle nera, ma in parte sono anche loro, i bambini, gli artisti: contemporaneamente autori, soggetti e spettatori, a dimostrazione che i musei e l’arte appartengono a tutti. «Ogni dettaglio di queste foto è importante. Il taglio di capelli dell’insegnante, chi è in prima fila, chi dietro, chi guarda davanti, chi di lato, chi sorride, chi no»’.
È un messaggio di inclusione che Tate Britain ha fatto suo, allestendo anche, per l’occasione, decine di bagni in più e modificando il menù del bar-ristorante, che per la durata della mostra offrirà opzioni a prova di bambino. «Per noi questa mostra è un dono», ha sottolineato la curatrice Clarrie Wallis. «Ci ha permesso di riesaminare completamente il modo in cui parliamo alla nuova generazione. È fondamentale, per un museo, comunicare con un pubblico sempre più ampio e diverso».
Perché proprio «Year 3» e non un altro anno scolastico? Per McQueen è un momento importante della crescita. «È più o meno a quest’età che diventiamo più coscienti del mondo che esiste oltre la porta di casa. Partecipiamo in modo più attivo e presente a ciò che ci circonda, diventiamo più curiosi».