Corriere della Sera, 13 novembre 2019
Cosa prevede l’ipotesi dello Stato per l’Ilva
Una soluzione di compromesso a cui starebbero lavorando sottotraccia gli sherpa di entrambi i fronti. Al netto dell’atto di citazione depositato al tribunale di Milano con cui ArcelorMittal ha chiesto il recesso del contratto di affitto dell’ex Ilva. Una mediazione che prevede l’intervento dello Stato, tramite Cassa Depositi che però può avvenire a condizioni di mercato rispettandone il suo statuto. Una mediazione che avrebbe un punto di caduta decisivo sull’area a caldo dell’Ilva con i suoi relativi altoforni 2 (destinato allo spegnimento immediato), ma anche 1 e 3 che necessitano di grandi interventi manutentivi per rispettare le prescrizioni ambientali dell’Aia non sostenibili economicamente per il colosso siderurgico. Lo schema, allo studio dei tecnici di Palazzo Chigi e del ministero dello Sviluppo, sfrutterebbe a suo vantaggio la tecnologia che ormai permette di evitare lo spegnimento definitivo dell’altoforno tramite la colata della salamandra, ovvero di quella parte di ghisa che col tempo si deposita nella parte bassa dell’altoforno. In teoria è possibile praticare dei fori dal basso per farla uscire ripristinandola poi gradualmente a step progressivi. Lavorando a rotazione sugli altoforni che potrebbero lavorare con un caricamento ridotto conservando la parziale continuità di fornitura ai grandi clienti manifatturieri, in primis Fincantieri, Fiat-Chrysler e i grandi costruttori come Salini-Impregilo. Che altrimenti dovrebbero importarla dall’estero con maggiori costi di approvvigionamento. Resterebbe il problema delle eccedenze, 5mila addetti di troppo secondo i Mittal che l’hanno esplicitato a Palazzo Chigi nell’incontro con il premier Giuseppe Conte. Che sarebbero gestibili se si trovasse una quadra con ArcelorMittal redigendo un nuovo contratto. L’intervento di Cdp (con una quota tra il 20 e il 30% in AmInvestco) l’utilizzo di fondi strutturali della Ue per le aree di crisi complessa, il supporto anche del gruppo siderurgico che potrebbe tenere un piede nell’Ilva, evitare l’ingresso di un concorrente asiatico e al tempo stesso garantire un contributo ad integrazione del reddito a zero ore dei lavoratori in esubero.
Si tratta di uno schema prematuro, ma a nessuno sfugge l’importanza di evitare la chiusura di Taranto partendo però da una riconsiderazione dei volumi produttivi che non possono più superare i 4 milioni di tonnellate annue di acciaio. Nel piano industriale di ArcelorMittal il pareggio di bilancio era previsto a 6 milioni. Fantascienza. Come è complicato immaginare una cordata solo di soci privati italiani. Nessuno ha sufficiente patrimonializzazione (forse ad eccezione della Tenaris di Rocca) per tentare una riconversione da 4 miliardi necessaria per l’Ilva. Si potrebbe ragionare, racconta una fonte, a delle partnership strategiche di natura commerciale che coinvolgano i maggiori produttori, commercianti e utilizzatori di prodotti piani e di tubi. Cdp insieme ad ArcelorMittal potrebbero ristrutturare l’Ilva. A condizione di evitare in extremis un contenzioso con lo Stato che avrebbe poche chance di spuntarla. Fornitori di materie prime e i clienti potrebbero lavorare sui prezzi all’ingrosso e al dettaglio.