Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2019
La lezione di Andrea Agnelli a Oxford
In un piovoso pomeriggio di novembre a Oxford, una folla di studenti si raduna al Corpus Christi College, per ascoltare Andrea Agnelli, il presidente della Juventus. Per l’erede della “Real Casa” di Torino, che nel 2010 scelse di riprendersi in mano la gestione del club e affidò a lui l’incarico, è un po’ un ritorno a casa: ha frequentato il St Claire’s College. Invitato dalla Oxford Univesity Italian Society, associazione degli studenti, presieduta dal matematico Francesco Galvanetto, Agnelli lancia un avvertimento che suona quasi come un allarme: il futuro della macchina del calcio vede un impoverimento. Dopo la prima fase di vita dei club, quella del calcio come passatempo di ricchi presidenti mecenati; e dopo la seconda, quella dello sbarco della TV nel mondo del pallone, il prossimo ciclo sarà quello di un calo del valore globale del business.
Perché le nuove generazioni sono meno interessate al calcio e i bambini di oggi saranno i telespettatori-consumatori del domani. Un fenomeno che sta iniziando dai paesi marginali oggi per il calcio, come Finlandia e repubbliche baltiche, ma che, è la previsione del numero uno dei bianconeri, «si estenderà all’Europa dell’Est e poi arriverà nell’Europa centrale» che oggi è il mercato più ricco del calcio. Quanto tempo ci vorrà è difficile dirlo, ma «il compito di un manager è prevedere i problemi e prevenirli». In realtà per un club che è ormai stabilmente nell’Olimpo, la cosa potrebbe anche tranquillamente essere trascurata: «Il sistema così com’è, per chi si chiama Juve, Real o Bayern, funziona e potrebbe andare avanti all’infinito». In effetti oggi i club fanno la parte del leone nella torta dei diritti tv, il motore che pompa ogni anno miliardi nelle casse dei club (quasi 6 miliardi nella Premier League; 1,8 nella Lig e 1,5 nella Serie A, i campionati più ricchi al mondo). Quella che Agnelli tiene davanti agli studenti è una sorta di lectio magistralis sul mondo del clacio e sulle prospettive dell’industria più da presidente dell’ECA, la Confindustria del calcio europeo, che guarda all’idraulica complessiva del mercato più che al “particulare”, ma per farlo parte dall’unicum della Juventus, solo club al mondo che da quasi 125 anni è di proprietà dello stesso azionista, per di più una famiglia: il club fu fondato sulla famosa panchina di Corso Re Umberto nel 1924.
E oggi, dopo aver sfondato la soglia del mezzo miliardo di fatturato, è entrato nella Top10 dei più grandi club al mondo, grazie anche all’ingaggio della superstar Cristiano Ronaldo (che però è costato dal lato contabile una perdita per il secondo anno di fila e debiti saliti a 570 milioni al 30 settembre).
A differenza della fiction, che alimenta la galassia degli Ott, da Netflix ad Amazon, i nuovi padroni della tv, il calcio offre l’unicità dell’evento dal vivo. E il tifoso non si accontenta di un video: vuole vedere le partite mentre si giocano.
E per accontentare i suoi 89 milioni di follower sparsi in tutto il mondo, tutti potenziali clienti, il club gioca sempre più partite ufficiali fuori dai confini nazionali. Lo fa anche per sottrarsi all’abbraccio soffocante della regolamentazione, la gabbia di enti che decidono calendari e introiti ma che pensano al calcio ancora come a un gioco, come è stato per oltre un secolo, e non come a quella macchina globale di affari e business che è diventato. Oggi metà dei ricavi di un club arriva da attività regolamentate: su 12 mesi di attività, solo 2, quelli delle turnè estive, sono effettivamente gestiti dalle singole squadre. E per questo i grossi club vagheggiano da tempo l’idea di una super-lega, ma soprattutto guardano con favore all’assalto delle nuove piattaforme che grazie alla loro disintermediazione, «riportano indietro l’equity value nelle mani dei club».