12 novembre 2019
Riflessioni per i partecipanti a concorsi ippici
Nulla, a pensarci bene, può giustificare l’ambizione di vincere un concorso ippico.
La gloria d’essere ufficialmente il miglior cavaliere del paese dà una felicità troppo acuta, nel momento in cui l’orchestra attacca a suonare, per non essere seguita, la mattina successiva, da un pentimento.
L’invidia dei rivali, gente scaltra, influente, ci ferirà certamente, mentre fendiamo la folla, appena usciti dal campo deserto, con solo qualche cavaliere sconfitto, che si disegna minuscolo contro l’orizzonte.
Molti nostri amici s’affrettano a riscuotere la vincita e dai lontani sportelli si degnano appena di gridarci il loro “bravo”; ma i migliori amici non hanno puntato sul nostro cavallo, nel timore, se quello fosse stato perdente, di dovercelo rinfacciare. Ora che il nostro cavallo è arrivato primo ed esse non hanno vinto, quando li oltrepassiamo distolgono il viso e guardano verso le tribune.
I concorrenti, dietro, saldi in arcioni, cercano di rendersi conto della disgrazia che li ha colpiti e del torto, in certo qual modo, loro inflitto; si sforzano d’apparire freschi, come se dovesse cominciare una nuova corsa, seria, dopo quel giochetto.
Molte signore trovano il vincitore ridicolo, perché si gonfia e non sa come comportarsi con tutte quelle strette di mano, saluti militari, inchini, gesti di saluto da lontano, mentre i vinti hanno la bocca chiusa e dànno leggeri colpi sul collo dei cavalli che continuano a nitrire.
Infine dal cielo diventato scuro comincia a piovere.
(Franz Kafka, Racconti, Feltrinelli, Milano 1972. Traduzione di Giorgio Zampa)