Huffington Post, 12 novembre 2019
Intervista ad Altan
Nei suoi disegni non è mai entrato: “Il rancore è un sentimento che non condivido. È contro la mia natura. Oggi, invece, è la linfa del dibattito politico. Anche quando nasce da problemi reali, usarlo come un carburante per incendiare l’umore delle masse, è un gioco pericolosissimo”. Da più di quarant’anni, nelle sue vignette, Altan ritrae noi italiani di fronte e di profilo, dandoci un quadro dentro cui guardare i nostri disturbi, il nostro carattere, le nostre sventure, i nostri colpi di testa e, quando capitano, anche i nostri colpi di genio: “Io mi sento italiano, anche se non mi interessa proclamarlo con orgoglio. Gli italiani possono essere eccezionali, oppure detestabili. Come tutte le persone del mondo, del resto. Ciò che ci distingue da molti altri, però, è la nostra straordinaria capacità di non riuscire a stare insieme, uno accanto all’altro, come popolo”.
Da un paio di settimane, tutto il mondo di Altan è esposto in una mostra del Maxxi di Roma, “Pimpa, Cipputi e altri pensatori” (ci rimarrà fino al 12 gennaio del nuovo anno), che ha raccolto i suoi disegni originali, i poster, le illustrazioni, gli schizzi, le tavole, i libri, i filmati, i quadri di quando Altan non era ancora Altan e, come tutti noi, veniva chiamato per nome, anzi due: Francesco Tullio: “ “I miei disegni – dice all’HuffPost – nascono soprattutto da una reazione a qualcosa che mi sembra sbagliata e mi provoca una voglia di intervenire, di dire qualcosa”. Per anni, la sua vignetta su l’Espresso era pubblicata nella pagina accanto a quella che ospitava la rubrica di Giorgio Bocca, “l’Antitaliano”, di cui poteva sembrare un’illustrazione: “Essere anti italiano non significa sentirsi estraneo all’Italia, significa piuttosto sentirsi un italiano che cerca di contrastare i propri vizi di italiano, anziché sguazzarci dentro, se non addirittura di approfittarne”.
Si rimane stupiti da certe sue vignette, che, dopo tutti questi anni, funzionano ancora. Tipo questa, del 1979: “Bisogna far durare questo governo fino alla primavera, così per il prossimo approfittiamo dei saldi di stagione”.
La politica italiana è ripetitiva, oppure non impara mai dai propri errori?
Entrambe le cose: la politica italiana è ripetitiva perché non impara mai dai propri errori.
Però una cosa è cambiata molto.
Quale?
Da un po’ di anni, lei non disegna quasi più il suo operaio, Cipputi.
Cipputi è nato quando la classe operaia combatteva e, qualsiasi giornale prendevi in mano, te la trovavi in prima pagina. Poi, si è dispersa, e gli operai hanno cominciato a votare un po’ di qua, un po’ di là. Alcuni oggi votano persino la Lega, un partito che ha principi opposti a quelli che motivavano la classe operaia di quei tempi.
Ha nostalgia?
La nostalgia puoi anche averla, ma non serve a niente.
Il suo Cipputi potrebbe votare Salvini?
Per come lo conosco io, non lo voterebbe mai.
Lei li ha conosciuti bene gli operai?
In fabbrica, li ho incontrati una volta sola: a Roma, alla fine degli anni Sessanta. C’era uno stabilimento occupato, che era diventato la meta di pellegrinaggio di tutte le forze extraparlamentari d’Italia. Ciascuna portava il proprio messaggio rivoluzionario, mentre quelle persone avevano ben altri problemi per la testa. Mi sentii in imbarazzo, perché non avevo nessun titolo per fare quel tipo di discorsi.
Era comunista?
Non ho mai avuto una tessera di partito, ma mi sentivo vicino al vecchio Pci, lo sentivo come casa mia. Ho sempre disapprovato le soluzione pratiche realizzate dal comunismo. Però, i principi erano giusti.
Lo sono anche oggi?
Quelli fondamentali sì. Peraltro, l’idea dell’uguaglianza e della fratellanza precedono il comunismo come movimento politico. Sono valori universali.
Lei come pensa?
La maggior parte delle volte, per immagini.
Che significa precisamente?
È molto difficile spiegarlo. Posso provare a farle un esempio. Dopo sei-sette mesi che leggo un libro, in testa non mi rimane una sola parola: ho sole delle scene, delle atmosfere, dei personaggi.
Il disegno della politica è stata una passione o un dovere?
Non è stata né una passione, né un dovere: ci arrivai perché il mio agente, dopo che avevo già cominciato a pubblicare per Linus, quando ancora vivevo in Brasile, mi presentò al direttore de l’Espresso, Livio Zanetti, il quale mi domando: “Le andrebbe di occuparsi di politica e attualità?”. Risposi: “Perché no?”.
La passione dove la portava, invece?
Nella direzionedi rappresentare ciò che provano gli esseri umani. Le cose che ci sorprendono, che ci animano. Prima che fosse un lavoro, per me c’era solo il piacere puro del disegno. Giocavo con il mio modo, a volte surreale, di vedere le cose del mondo.
Ha mai incontrato qualcuno più bravo di lei?
Ho incontrato tante persone che fanno cose io non saprei fare. Come per esempio, Hugo Pratt.
L’ha conosciuto bene?
Non benissimo. Ma ci incontravamo a Lucca, ai raduni di fumettisti. Era un grande raccontatore di storie, anche dal vivo. Io mi mettevo in un angolino e lo ascoltavo ammirato. Mi intimidiva. Era un uomo molto estroverso, almeno quanto io sono introverso.
Il fumetto l’ha scoperto in famiglia?
Ma scherza? A casa mia il fumetto era proibito. Era considerato una lettura diseducativa. Avevo il permesso di leggere i miei albi solo durante l’estate, e nei giorni di vacanza.
E lei rispettava il divieto?
Non proprio. Una volta, in una grande casa a San Vito, ci fu un incendio. I miei corsero a svegliarmi alle sei del mattino, preoccupati che le fiamme si propagassero, per portarmi via. Aprirono la porta e mi trovarono con la testa ficcata nelle pagine di un fumetto.
Quale?
Non ricordo precisamente, ma io leggevo Piccolo sceriffo, Pecos Bill, Gim Toro, quegli album a strisce piccoline di cui ora mi sfugge il nome. Avevo amici più grandi che li compravano per me in paese. E io, per non farmeli beccare, li nascondevo in giardino.
Suo padre è stato un liberale e anche un grande antropologo.
Aveva fatto la resistenza. Siamo stati distanti, ma alla fine ci ritrovammo a parlare delle stesse cose. I suoi studi sugli italiani – il familismo amorale, la mancanza di senso dello stato, l’individualismo sfrenato – mi hanno aiutato molto anche nel mio lavoro.
Qual è la sua vignetta più famosa?
Forse, quella che feci quando vinse Silvio Berlusconi nel 1994. Uno dice: “Poteva andare peggio”. E l’altro risponde secco: “No”.
La condivide ancora?
No, perché, dopo le elezioni del 4 marzo, ho scoperto che mi sbagliavo: poteva andare peggio. In effetti, ora ci troviamo in prossimità del disastro.
Sta rivalutando Berlusconi?
No, perché il disastro inizia proprio con lui. Nel momento in cui la politica si è separata dalla persone che sapevano cosa stavano facendo e, al loro posto, sono arrivati gli improvvisatori.
Lei ha dato una splendida definizione di popolo.
Una banda di individui.
Il populismo, invece, come lo definirebbe?
È il movimento che adora le bande di individui.
Lei c’è mai stato in una di queste bande?
Non che io sappia.
Si è fatto un’idea del perché la sinistra sia sempre in crisi?
Me lo chiedo da quarant’anni.
Chi le dà speranza?
Provo molta simpatia per il movimento ambientalista di questi giovanissimi ragazzi guidati da Greta Thunberg.
Che cosa le fanno sperare?
Che le cose possano andare meglio di come stanno andando.
È stanco di rispondere alle domande?
Più che altro mi imbarazza, perché non è il mio mestiere.
Mi dica solo l’ultima cosa: come ci si sente a finire in una mostra?
Ci si sente vecchi, caro mio.