la Repubblica, 12 novembre 2019
Ilva, i tre vizi capitali
I l caso Ilva è un esempio di tre ostacoli allo sviluppo economico dell’Italia: mancanza di certezza del diritto e delle regole; troppe quantità di risorse (lavoro e capitale) investite in settori in declino irreversibile; e la generale richiesta di un maggiore intervento pubblico nell’economia, pur senza risorse e soprattutto strategie o obiettivi chiari.I problemi di oggi hanno origine negli anni ’60 con la decisione dello Stato di insediare a Taranto un grande impianto siderurgico integrato (dal minerale al laminato d’acciaio). Una scelta per promuovere l’industrializzazione del Paese e del Mezzogiorno, urbanizzando le aree limitrofe per dare alloggio ai lavoratori provenienti dalle campagne. L’impatto ambientale allora non fu preso in considerazione. Lo Stato poi cedette Ilva ai Riva (per circa 1,7 miliardi ai valori correnti) nel 1995, senza imporre di adeguare gli impianti a più stringenti vincoli ambientali. Nel 2012, la procura mette la cosiddetta area a caldo (gli altiforni) sotto sequestro per disastro ambientale (incidentalmente nessuna condanna è stata ancora emessa nel processo ai Riva).
La procura, sulla base di una propria perizia, con criteri diversi e non strettamente collegati ai limiti alle emissioni e ai requisiti richiesti dalle Direttive europee o dalle norme dello Stato allora vigenti, interviene perché ritiene che l’impianto, nelle attuali condizioni, sia un pericolo per la salute pubblica.
Chi stabilisce se, a quali condizioni, e quanto produrre a Taranto? Le procure, il governo (ammesso che abbia voce univoca), o l’Europa? Il continuo palleggio tra decreti del governo e provvedimenti di procura e Tribunali dimostra un’incertezza del diritto e delle regole che rende enormemente complesso pianificare gli investimenti a lungo termine imposti dal contratto di cessione dell’Ilva stipulato tra lo Stato e ArcelorMittal nel giugno del 2017, al termine di un processo competitivo.
Per gestire l’Ilva, l’immunità è cruciale: l’impianto è ritenuto un pericolo per la salute pubblica, è sotto sequestro, e chi lo gestisce è incriminabile; inoltre è un modo per lo Stato di asserire la propria autorità su quella delle procure, e onorare un contratto che ha sottoscritto con un privato. Questa situazione spiega anche perché ArcelorMittal pagherà il prezzo pattuito di 1,8 miliardi solo al momento del dissequestro dell’area a caldo (si stima nel 2023), ovvero nel momento in cui la procura, autonomamente, riterrà che la salute pubblica non sia più a rischio. Il compimento di quanto previsto dal Piano ambientale decretato dal governo nel settembre 2017 è dunque una condizione necessaria, ma non sufficiente, per il dissequestro. La decisione finale spetterebbe dunque alla procura, non al governo. Che, come se non ci fosse già abbastanza incertezza, nel maggio scorso ha avviato un procedimento per modificare l’Analisi dell’impatto ambientale per lo stabilimento di Taranto. ArcelorMittal, nel recesso dal contratto, evidenza un’altra fonte di incertezza. L’Altoforno 2 (uno dei tre in funzione) è stato oggetto di un secondo sequestro, non collegato al primo, nel giugno 2015 a seguito di un incidente mortale. Ma per tre anni i commissari non adempiono alle prescrizioni del Tribunale per la messa in sicurezza. Così dopo ordinanze, istanze e ricorsi la procura ne ordina lo spegnimento nel luglio di quest’anno. Decisione ribaltata dal Tribunale che a settembre ne concede l’uso, condizionato agli stessi adempimenti da completare però entro il 13 dicembre 2019, nonostante i periti indichino in 15 mesi il tempo necessario. Si rischia quindi nuovamente lo spegnimento dell’Altoforno 2, ed è logico aspettarsi che anche gli altri due facciano la stessa fine prima o poi.
In queste condizioni diventa impossibile assicurare la produzione del Piano industriale presupposto per mantenere i livelli occupazionali concordati con l’amministrazione straordinaria, ma anche assicurare la redditività necessaria per un investimento privato.
Specie a fronte di una caduta della domanda globale e un aumento dell’offerta di acciaio cinese a basso costo. Il governo è in un vicolo cieco. Una parte delle forze politiche che lo sostiene vuole la chiusura dell’area a caldo, che non potrà mai essere green. Di questo ha fatto una bandiera, anche se sarebbe la morte di Ilva e bisognerebbe importare l’acciaio da lavorare. Ma non vuole assumersi la responsabilità dei costi sociali ed economici. L’eliminazione dell’immunità, che avrebbe sicuramente provocato il ritiro di ArcelorMittal, sembra più una mossa deliberata per scaricare l’eventuale colpa della chiusura al dietro front del gruppo indiano, che un atto velleitario. La proverebbe un decreto legge che prevedeva l’eliminazione già nell’aprile scorso. Si accusa ArcelorMittal di cercare un alibi per disimpegnarsi. Ignorando che in aprile ha dovuto dismettere rapidamente, sacrificando il prezzo, due acciaierie integrate in Romania e Repubblica Ceca, oltre a diversi altri impianti, proprio per ottemperare alle condizioni poste dall’Antitrust europeo per l’acquisto dell’Ilva.
Un’altra parte del governo persegue invece l’obiettivo prioritario della difesa del posto di lavoro, anche in aziende e settori in crisi, spesso irreversibile, e dal futuro incerto. Ma non può permettersi di ricreare l’Efim e deve quindi ricorrere ai capitali privati. Questi però richiedono certezza del diritto e delle regole che questa parte del governo non riesce a garantire; nonché una redditività adeguata che spesso collide con gli obiettivi politici dell’occupazione.
Come se ne esce? Sicuramente si cercherà qualche soluzione di compromesso per tirare la palla avanti. Di sicuro la credibilità del governo e delle nostre istituzioni ne esce ulteriormente danneggiata. Rendendo i tre ostacoli indicati all’inizio ancora più difficili da superare.