Il Messaggero, 12 novembre 2019
Intervista a Christian De Sica
Una commedia furba dall’anima battutara, il cuore a Napoli e la confezione da horror comedy alla moda. Nona regia di Christian De Sica, che dirige e interpreta insieme a Gianmarco Tognazzi e Carlo Buccirosso, Sono solo fantasmi (al cinema dal 14 novembre), è la storia di tre scombinati fratelli che s’improvvisano acchiappafantasmi pur di lucrare sulla morte del padre Vittorio, donnaiolo e giocatore accanito. Un modo per raccontare una Napoli «luminosa e divertente, diversa dalla città della camorra», ma soprattutto un modo per De Sica «di raccontare mio padre. Il film è pieno di citazioni dei suoi film».
Un tempo un film così sarebbe uscito a Natale.
«Ma oggi il periodo è troppo affollato. Tutti vogliono uscire a Natale. Anche la Archibugi vorrebbe uscire a Natale. Prima eravamo solo io e Boldi. Sono altri tempi».
Tempi in cui la commedia incassa meno. Perché?
«I nuovi comici fanno troppi film. Nino Manfredi diceva: se sei un volto noto, fai un film all’anno. Oggi né fanno cinque o sei. Le commedie si somigliano tutte. E poi l’Italia è piena di comici che ridono delle loro stesse battute. Non bisogna mai farlo. Mio padre me lo diceva sempre».
Che altri consigli le dava?
«Mai mettere le mani in tasca, è volgare. Mai passare sotto alle scale, mai indossare il viola a teatro. E poi: prima di entrare in scena, mettere un ombra di grigio sulle palpebre. Me lo disse prima che partissi per il Venezuela, da ragazzo».
Il suo personaggio nel film è identico a lui.
«Dovendo interpretare un tipo così, donnaiolo e giocatore incallito, era inevitabile. Ogni tanto quando ero piccolo spuntava una sorella o un fratello dal nulla. Al funerale di papà c’era una ragazza, la notai perché aveva un gran sederone. Quando si girò mi prese un colpo: aveva la mia faccia. Era Ines, la figlia della sarta».
Un padre così lo si può anche odiare.
«A me piacevano più i suoi difetti che i suoi pregi. Mi manca molto. E in Italia, che è un paese che dimentica in fretta, meglio rinfrescare la memoria. I ragazzi non sanno più nemmeno chi sia Anna Magnani».
Però lei la conoscono benissimo.
«Quando i giovani mi chiamano zio e mi abbracciano sono felice. Onestamente non mi pare che capiti a molti altri colleghi». A Zalone forse succede. Le piace?
«Zalone è bravo. È politicamente scorretto, e funziona. È un uomo colto. I suoi film sono belli».
Si sente superato da quelli come lui?
«Zalone oggi è quello che eravamo io e Boldi vent’anni fa. Gli outsider che rompono le regole. Ma Zalone ha fatto quattro film, io 110. L’importante è durare negli anni».
L’importante non è incassare?
«Oggi non me ne frega niente degli incassi. Me ne frega solo per i produttori, mi dispiace per loro se il film non funziona. Ormai c’è gente che non fa nemmeno 400.000 euro. Il film di Salvatores, bellissimo, non incassa. Nemmeno Brizzi incassa».
Perché non torna con Boldi?
«Il film della reunion è stato un successo. Pensavamo di tornare al prossimo Natale, ma il copione non ci convince».
Chi la fa ridere oggi?
«Zalone e Max Tortora. Uno davvero bravo, che sta uscendo fuori solo adesso. Un po’ è anche merito di mio figlio Brando e di mio cognato Carlo, che lo hanno riscoperto. Alessandro Siani incassa molto. Ora ha fatto un film per bambini, sul genere fantastico. Cambiare stile funziona».
Centodieci film, 68 anni. L’età la spaventa?
«Certo, per un attore è una fregatura. Ti chiamano sempre di meno, i ruoli sono gli stessi: l’avvocato, il cardinale. Meglio avere 28 anni».
Le serie tv non le fa?
«Ho fatto gli sceneggiati, ho fatto la fiction. Ora è più difficile. In Rai lavorano sempre gli stessi, è difficile entrare nel giro».
La Rai l’ha più chiamata per Sanremo?
«Probabilmente quest’anno ci andrò, ma da ospite. La conduzione ancora non me l’hanno proposta purtroppo».
Tanti oggi bussano da Netflix...
«Forse Netflix mi produrrà il film sulla storia d’amore tra mia madre e mio padre, La porta del cielo. Credo sia la cosa più bella che ho scritto, ma non me la fa fare nessuno. Pago lo scotto di anni di cinepanettoni, non sono considerato credibile».
Qualche premio in più avrebbe aiutato?
«Ho avuto Nastri d’argento e tre David, uno me l’hanno pure fregato: era di Bulgari. Non mi lamento. Il premio migliore è l’affetto del pubblico».
Diceva: Roma è Baghdad. Lo pensa ancora?
«Si, ma dopo il bombardamento. Ricordo ancora quando a Via del Corso si andava in carrozza, era una strada piena di cioccolaterie e di negozi di tessuti. Adesso, solo per riparare le buche, servono 200 miliardi».