il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2019
Biografia di Noemi Batki (tuffatrice italiana)
È difficile immaginare che Noemi Batki da piccola fosse una fifona, lei che – per adesso è la sola – rappresenta l’Italia nelle rassegne internazionali tuffandosi dalla piattaforma dei 10 metri (e dieci metri, come i papaveri della canzone, “son alti, alti, alti”). “Ho iniziato da bambina, poiché mia madre è stata una tuffatrice della nazionale ungherese, e poi è diventata allenatrice, anche la mia. In pratica, in piscina ci sono nata. Ma fino ai quindici, sedici anni ero molto paurosa.” Racconta Noemi, la voce ancora argentina e squillante, nonostante siano passate le 7 del pomeriggio di un ordinario giorno di allenamento ad Acquacetosa, nel centro sportivo olimpico dell’Esercito in cui trascorre tutte le sue giornate. La routine quotidiana di Noemi segue gesti ritmati: si sveglia alle 7,15 e, dopo una colazione energica, alle 8,30 è già in piscina dove si allena fino alle 11,30. Alle 12,30 pranza – “è l’ultimo pasto in cui ho a che fare con dei carboidrati, perché la merenda poi è un frutto,” confessa ridanciana – alle 15 riprende gli allenamenti fino alle 18, alle 20 cena – “leggera, nemmeno a dirlo: carne e verdure, o pesce e verdure” – e alle 23 si consegna a Morfeo, diciamo noi, mentre lei più letteralmente precisa “svengo a letto”. E di nuovo il giorno dopo, con uno sgarro a settimana, di solito la pizza.
Per comprendere perché sia così importante avere tali attenzioni per il corpo del tuffatore, bisogna inoltrarsi sulla difficoltà della disciplina, che ha a che fare soprattutto con l’atavica paura del vuoto, o meglio con l’ancestrale sogno umano del volo. L’atleta è lì sospeso, a volte in verticale a testa in giù, altre volte dà le spalle allo specchio d’acqua della piscina e si tiene in piedi solo sulle punte, oppure è a viso aperto. Dovrà compiere delle evoluzioni in aria – ai commentatori più esperti, sentiamo pronunciare giaculatorie del tipo “rovesciato” (il tuffatore salta guardando la piscina ma ruota indietro.), “carpiato” (con le gambe tese ma le braccia piegate), o ancora “teso” (con gambe e braccia distese) – in 2 o 3 secondi, mentre cioè sta subendo la legge di gravità e cade, cade, cade fino all’ingresso in acqua, con l’atleta (di norma) perpendicolare alla superfice blu.
Il tuffo è definito “scarso” se l’angolazione è inferiore, “abbondante” se è superiore ai 90 gradi. “Per essere un tuffatore,” dice Noemi, “occorrono molti requisiti: resistenza fisica, dinamica e linee da danzatore, scioltezza da ginnasta, spericolatezza da bambino. E poi, molta testa, molta.”
Mentre si è in aria, quindi, o mentre si è sospesi prima di tuffarsi, è la testa a governare il corpo, a dirgli in ogni attimo cosa fare mentre lotta contro la rovina. “Tutte queste cose,” rivela Noemi, “le ho capite quando avevo mollato. A sedici anni, mi ero stufata. Iniziai a fare ginnastica, nuoto e per un anno smisi di tuffarmi. Non riuscivo a vincere quella maledetta paura. Poi, assistendo a una gara, capii che quello era il mio destino. Nella prima settimana in cui ripresi ad allenarmi, portai a compimento tutti i tuffi che mi ero sempre rifiutata di eseguire”. Di lì in poi, le medaglie dalla piattaforma dei 10 metri di Noemi non si contano, tra cui spiccano l’oro agli Europei di Torino nel 2011 e – 8 anni più tardi – a Kiev: in mezzo, una cascata di medaglie d’argento e di bronzo.
Per le Olimpiadi di Tokyo 2020 è ambiziosa, vuole la finale, e – contro ogni pronostico – magari anche una medaglia contro lo strapotere delle cinesi, da sempre imbattute in questa disciplina. “In cinque tuffi, ti giochi 4 anni di preparazione. È una lotta psicologica con se stessi. Adesso, a 32 anni, ho la maturità di gareggiare contro le mie paure. Non penso alle pressioni e alle aspettative. Certo, mi fa piacere essere seguita e stimata, ma io ogni volta che salto dai dieci metri, lo faccio per me, per sentirmi viva”. E questo sport è passione pura per Noemi, talento azzurro nato in Ungheria (a Budapest) nel 1987 e trasferitasi in Italia ad appena tre anni. Gambe flessuose e piedi arcuati da ballerina, ascolta Lady Gaga, Madonna e tutto il pop, e le piace andare al cinema: “L’anno scorso, dopo aver visto il film Bohemian Rapsody, ascoltavo i Queen a loop”.
Ma la stabilità Noemi la riceve anche dal rapporto speciale con la madre, Ibolya Nagy che per vent’anni è stata la sua diretta allenatrice. “Cambiare allenatore è stata una decisione difficile da prendere, ma avevamo capito entrambe che per continuare a migliorare, occorreva fare qualcosa”, spiega senza nascondere un che di sollievo nel riportare una scelta condivisa, anche per amore. “Il nostro legame non è cambiato, e questo mi dà tanta forza”.