il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2019
La storia segreta del disco
Un corno, un diaframma elastico, una setola di maiale, un cilindro a manovella cosparso di nerofumo. Con infinita testardaggine, il libraio franco–scozzese Edouard Scott de Martinville riuscì a fissare la voce umana su quella diavoleria. Era il 1860: ma doveva passare un secolo e mezzo prima di poter ascoltare, grazie alla rielaborazione del computer, quel primo canto registrato, il verso Au clair de la lune, Pierrot repondit, intonato dallo stesso inventore. Che non immaginava di aver compiuto un esorcismo laico: il suono diventava “fisico”, si potevano progettare apparecchiature sempre più sofisticate che avrebbero riproposto a piacimento canzoni, sinfonie, discorsi, performance. Un’epopea durata più di 150 anni: la pietra angolare fu il fonografo di Edison, e in sequenza il grammofono, il giradischi, l’Hi-Fi, le musicassette, le cartucce Stereo8, il Walkman, il Cd, il minidisc.
Infine la resa, appena dentro il Terzo Millennio, alla dittatura degli smartphone, delle app che ti vendono un brano o te lo piazzano sotto il naso via streaming, e se sei un adolescente di oggi, con le cuffiette perennemente nelle orecchie e una concentrazione di 7–8 secondi (parola di scienziati) non puoi sapere cosa significasse per i nonni e i padri vivere il feticismo dell’ “oggetto” musicale: di quando correvi al negozio per l’ultimo long playing dell’idolo e poi ti precipitavi a casa dopo aver studiato una copertina che faceva arte a sé, e il fruscio caldo della puntina ti esponeva al rito laico, spesso condiviso con gli amici, di un ascolto lungo e verticale, perché gli album erano concepiti per essere opere articolate. Guai a predisporsi a un approccio effimero, come accade a troppi teenager post–Duemila che le canzoni se le fanno scivolare addosso, l’orecchio invaso da quisquilie trap, un rumore di fondo che non vale più di una distratta attesa alla fermata del bus e di un “mi piace” sull’account della star. Irrimediabilmente trascorso, ormai, il tempo del possesso inconsciamente erotico e fieramente tattile del prodotto–disco. O quasi: perché il vinile potrebbe tornare in auge, oggi è ancora scelta di nicchia ma i giovani si incuriosiscono attorno al modernariato pop che induce a nostalgia i più vecchi.
L’era della “Musica Solida” (adesso è “liquida”, o secondo altre definizioni vagamente ironiche “gassosa”) merita un’esplorazione appassionata. Se n’è fatto carico Vito Vita, in un esaustivo volume edito da Miraggi (23 euro) per quella che nel sottotitolo è precisata come una “Storia dell’industria del vinile in Italia”. E tale è, dagli albori ai giorni nostri. Nella costruzione dello scenario nulla sfugge alla puntualizzazione dell’ostinato Vita, un passato nelle radio torinesi e nella band di rock demenziale “Powerillusi”.
Nel suo “Musica Solida” una sorta di baedeker per studiosi del settore, ci trovi tutti, dagli impresari ai discografici e agli artisti che abbiano inciso almeno un singolo di qualche rilevanza. Ma la sua non è una mera elencazione di nomi, date, indirizzi di etichette e cambi di scuderia: nel volo del suo drone, Vita disegna quella che è stata, per buona parte del Novecento, l’avventurosa parabola delle fortune discografiche nazionali. Una galleria di volti, circostanze, strategie imprenditoriali, brani rimasti nella memoria collettiva. E, a leggerli in filigrana, riscopri gustosi paradossi. Come quello della Rca Italiana: nacque per volontà di Pio XII, che agli americani chiedeva un “risarcimento” per i bombardamenti di San Lorenzo e li indusse a costruire a Roma una decisiva filiale europea del colosso Usa. Dopo una prima sede provvisoria, quella mitologica fu a via Tiburtina, che oggi è solo un desolato magazzino di scarpe all’ingrosso ma negli anni d’oro era stabilimento, mausoleo e fucina di talenti sotto la guida dell’illuminato Ennio Melis, anch’egli uomo del Vaticano.
Insomma, il cantautorato ribelle e scapigliato era nato per iniziativa del Vicario di Cristo, così come la rivoluzione hippie era stata incubata al “Piper” di Giancarlo Bornigia, che aveva militato nella fascistissima Decima Mas. E che dire degli inquietanti incroci tra servizi segreti e canzonette? L’oscuro proto-rocker Jerry Puyell, che ronzava nel coté del primo Celentano, era seguito come un’ombra dal padre, il capitano dell’esercito Giuseppe Puglielli, 007 sotto copertura con la missione di vigilare sugli scapestrati teddy-boys che movimentavano la scena milanese di fine anni Cinquanta. Mentre nota è la vicenda di Enrico Rovelli, manager di Vasco fino al giorno del ’97 in cui Dario Fo, con una lettera sull’Unità, fece luce sui suoi trascorsi da talpa dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Nel ’69, in cambio della licenza per un locale, Rovelli aveva fornito alla questura meneghina informazioni sul circolo anarchico frequentato da Pinelli. E poi, accanto ai big, ecco le figure perse nel buio della cronaca: il non chiarito suicidio (per amore di una famosa attrice, forse) di un interprete di successo come Rossano. O l’omicidio mai punito della cantante Lolita, orrendamente massacrata da chi osteggiava una sua love–story. O l’apparizione della cometa Donato, che non sfondò come artista, ma da politico sì: il suo vero nome è Umberto Bossi.
Storie, nascoste o accennate tra i solchi dell’irripetibile epoca della “Musica Solida”. Che dai cilindri ai V-Disc degli Alleati, passando per i 78 giri, i 45 e i 33, alla fine si è fermata, per lasciare il passo al gas di Internet. A meno che qualcuno non rimetta sul piatto la puntina inceppata.