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 2019  novembre 11 Lunedì calendario

Cinquanta aziende finite all’estero

Italia, terra del “chi ha dato ha dato, chi ha avuto avuto”. Un ritornello difficile però da accettare per i quasi 365mila lavoratori che dal 2002 a oggi, secondo il database compilato dall’ufficio Eurofound dell’Unione Europea, sono stati “dismessi” in una delle 734 crisi aziendali di grandi dimensioni che hanno colpito il nostro Paese, il 5% di quelle dell’intera Ue nella quale, durante lo stesso periodo, le ristrutturazioni maggiori hanno cancellato 6,87 milioni di posti di lavoro. È vero che dal 2002 a oggi in 9.590 vicende aziendali in Europa sono stati creati 4,07 milioni di posti di lavoro (153 i casi in Italia, con 102mila 860 nuovi occupati), ma il saldo resta negativo, con l’aggravante che spesso a licenziare è chi ha ricevuto aiuti pubblici.
Sono cinquanta i casi italiani registrati da Bruxelles negli ultimi 18 anni nei quali la riduzione della forza lavoro è stata decisa per delocalizzare gli impianti: i dipendenti colpiti sono stati 11.517, in apparenza solo il 3,16% di quelli coinvolti nelle crisi maggiori. Una lunghissima via crucis quella del database comunitario: i trasferimenti all’estero hanno colpito International Rectifier, Rolam, Antonio Merloni, Irca, De’ Longhi, Agv, Wella, Olivetti, Cofra, Acerbi Viberti, Donora Elettrodomestici, Marzotto, poi ancora Marzotto, Cablelettra, Dorel, Gasfire, Invensys, Chemtura, Beiersdorf, Alstom, Sogefi, Riello, Elica, Johnson Electric, Indesit, Omsa, Bialetti, Gambro, Amcor, Global Garden Products, ancora Bialetti, Bessel, OM, Medtronic, ancora Indesit, ancora Riello, Invensys, Sertubi, Coccolino, Brembo, Husqvarna, Whirlpool, Roland Europe, Bundy Refrigeration, Carrier, Cisa, Landi Renzo, Honeywell, Embraco, Bekaert e ABB Italia. Solo le vicende di Candy, Zoppas, K Flex, Whirpool, Honeywell, Micron Technologies, Videocon, Unilever, Vibac, Bekaert, Magna e Lazzaroni hanno dominato le cronache.
Ma i dati Ue sulle delocalizzazioni non mappano tutto il fenomeno. Innanzitutto per motivi di campionamento: per essere registrata da Eurofound, una ristrutturazione deve comportare la perdita annunciata di almeno 100 posti di lavoro o deve avere effetti sull’occupazione che colpiscano almeno il 10% di una azienda con oltre 250 addetti. Dunque tutte le crisi di aziende minori o le ristrutturazioni che hanno coinvolto meno di un decimo degli occupati non sono state registrate. In secondo luogo, sono registrate come delocalizzazioni solo le ristrutturazioni annunciate come tali. Ma molte operazioni non vengono etichettate così, in particolare quelle delle multinazionali.
Il caso dell’Alcoa di Portovesme è un esempio. Il gigante mondiale dell’alluminio dopo lunghe difficoltà a gennaio 2012 annuncia l’intenzione di chiudere il suo impianto sardo e tagliare 500 addetti. A quasi dieci anni dall’inizio della crisi e a cinque dall’apertura del presidio permanente dei lavoratori la vertenza non si è ancora chiusa. Il 2 ottobre Gianni Venturi, segretario nazionale della Fiom Cgil per la siderurgia, ha chiesto per Portovesme “i decreti attuativi di ripartizione delle risorse del fondo per la riduzione dei prezzi dell’energia (decreto Crescita) e soprattutto di una soluzione strutturale al tema dei costi energetici”, cioè gli aiuti pubblici. Lasciata l’Italia però Alcoa non ha certo smesso di produrre: conta sei miniere, otto impianti di raffinazione e 14 fonderie in otto Paesi. La chiusura in Sardegna non è stata catalogata dalla Ue come delocalizzazione perché Alcoa all’estero c’era già.
Al danno si assomma poi l’ingiuria quando i tagli della forza lavoro, non solo per delocalizzare, arrivano dopo contributi europei, statali, provinciali, regionali e a volte anche comunali, senza dimenticare quelli di agenzie e società pubbliche, erogati sotto forme diversissime. Una cascata di denaro che nessuno è riuscito sinora a mappare. Un tentativo di trasparenza è stato introdotto dalla legge 124 del 2017 ed esteso dal Decreto Crescita, in vigore dal primo maggio 2019 con effetto dal 2018: tutte le imprese, anche quelle che non redigono il bilancio, devono rendere note sovvenzioni, contributi e vantaggi economici di qualunque genere ricevuti dalla pubblica amministrazione se superiori a 10mila euro. Un altro strumento è il Registro nazionale degli aiuti di Stato, gestito dal ministero dello Sviluppo economico ma accessibile solo alla pubblica amministrazione a scopo di controllo.
L’entità delle risorse erogate si può solo stimare per difetto. I fondi europei destinati all’Italia per il periodo 2014-2020 assommano a circa 44 miliardi e Roma non riesce nemmeno a spenderli tutti (deve cofinanziarli) rischiando di perderne una fetta. Quanto ai fondi nazionali, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica i trasferimenti pubblici alle imprese stanziati dal bilancio dello Stato per il 2019 ammontano a oltre 41,6 miliardi dei quali 19,3 sono oltretutto dannosi per l’ambiente. Tutti gli altri fondi non sono censiti. Percepiscono fondi statali le Fs e le “altre ferrovie private”, il settore aeronautico (Alitalia in testa) e dell’autotrasporto, l’editoria, le banche, TV e radio, il cinema, l’agricoltura e la pesca, scuole e università private, le società del settore ippico, imprese turistico alberghiere. Altri contributi di Stato vanno alle società delle energie rinnovabili, spesso anche a quelle delle fonti fossili, e pure alle società che consumano grandi quantità di energia.
Sono proprio questi i settori dove dal 2002 a oggi, secondo il database della Ue, si è licenziato di più. Solo per restare ai casi di gruppi industriali e dei servizi che negli ultimi 18 anni hanno registrato stati di crisi con pesanti tagli occupazionali, nella classifica svettano gruppo Fs (18.050 lavoratori in meno), Telecom (-16.400), Alitalia (-13.904 con Meridiana che ne segna altri 987 in meno), gruppo Fca (-10.864), Ilva (-5.650), Poste (-4.529), Natuzzi (-3.825), Whirpool (-3.285), Electrolux (-3.213), Indesit (-2.925), gruppo Enel (-2.400), Almaviva (-2.326). Ma l’elenco è molto più lungo.
Eppure, senza considerare gli ammortizzatori sociali, solo tra il 1977 e il 2013 il gruppo Fiat ha ricevuto contributi pubblici a vario titolo per oltre 7,6 miliardi. Fs e Alitalia sono stati per decenni (la compagnia di bandiera lo è ancora) un pozzo senza fondo per le casse dello Stato (dal 1908 le Fs hanno pure un fondo speciale all’Inps). L’Ilva ora vede la fuga di ArcelorMittal perché è in perdita ma quand’era Finsider di Stato dal 1974 al 1986 non ha mai chiuso un bilancio in pareggio (e spesso nemmeno dopo).
Forse è per questo che si sono perse le tracce della proposta di legge avanzata nel 2014 da Sinistra e Libertà che chiedeva il rimborso dei contributi pubblici erogate alle aziende che delocalizzano. Così l’Italia resta la terra dello scurdammoce ‘o passato.