Corriere della Sera, 11 novembre 2019
L’omicidio di Notarbartolo, l’esordio della Piovra
Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, rispettato esponente della Destra storica, nominato da Marco Minghetti direttore generale del Banco di Sicilia, fu assassinato la sera del 1° febbraio 1893 con più di venti colpi di pugnale. Il fatto avvenne in una carrozza di prima classe del treno che stava viaggiando da Termini Imerese a Trabia. Il cadavere fu gettato fuori dal vagone all’altezza del ponte di Curreri. Ma nessuno avvertì i familiari dell’accaduto. Alla stazione di Palermo Notarbartolo era atteso da tre donne: la moglie e le figlie. L’inchiesta per quel delitto fu avviata a Palermo, ma i processi si svolsero a Milano, Bologna, Roma e a Firenze dove, dieci anni dopo, il dibattimento si concluse senza una «verità giudiziaria» che indicasse specifici colpevoli (come, del resto, accadde per il contemporaneo scandalo della Banca Romana). Si ritenne però generalmente – e ancora si ritiene – che l’uccisione fosse riconducibile a ciò che Notarbartolo aveva fatto o fosse in procinto di fare al Banco di Sicilia. Si ipotizzò che i mandanti facessero riferimento alla mafia nelle persone di Giuseppe Fontana (esecutore materiale) e del parlamentare Raffaele Palizzolo. Qualcuno ipotizzò un qualche coinvolgimento del più importante uomo politico dell’epoca, il siciliano Francesco Crispi.
Enzo Ciconte in Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso che la Salerno si accinge a mandare in libreria, prende le mosse dalla circostanza che, passato il momento dell’emozione, «a nessuno se non al figlio e a pochi altri», sia più importato conoscere cosa era davvero successo su quel treno. Quantomeno in apparenza. Perché gli storici, uno per tutti Salvatore Lupo in Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni (Donzelli), successivamente sarebbero ampiamente tornati su quell’episodio di sangue. Qualcuno, come Amelia Crisantino – in Della segreta e operosa associazione. Una setta alle origini della mafia (Sellerio) – per mettere in evidenza come un processo molto somigliante al caso Notarbartolo, quello per gli assassinii di Monreale nell’estate 1876, nonostante innumerevoli prove si concluse anch’esso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Qualcun altro, come Saverio Lodato e Roberto Scarpinato – in Il ritorno del principe (Chiarelettere) – per ipotizzare che l’imputato Palizzolo, condannato a trent’anni nel 1902 a Bologna, sia stato assolto due anni dopo in Cassazione «perché essenziale per gli equilibri del sistema».
Al centro della ricostruzione di Ciconte sta quello che a suo tempo già notò Paolo Pezzino (in Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia postunitaria edito da Franco Angeli) e cioè che la repressione del fenomeno mafioso si accompagnò e addirittura fu «condizionata dalla liquidazione di avversari politici». Molti uomini delle classi dirigenti del Nord inviati dopo l’unità nel Mezzogiorno, scrive Ciconte, «combattevano la mafia solo quando l’accusa di essere mafiosi poteva essere scagliata come un sasso contro nemici politici», mentre «le attività concrete, le violenze, i morti ammazzati, l’insediamento sociale e territoriale della mafia non erano contrastati se non quando veniva superata la soglia della tollerabilità sociale».
C’è nella Sicilia di quegli anni una caduta delle barriere tra Sinistra e Destra storica e lì si anticipa il fenomeno del trasformismo che avrebbe caratterizzato l’Italia tutta a fine Ottocento. Quello dell’imputato Palizzolo è un caso paradigmatico: nel 1885 fu affiancato a Notarbartolo alla guida del Banco di Sicilia su intercessione di esponenti della Sinistra, soprattutto Francesco Crispi.
Qualche tempo dopo (nel 1890), Notarbartolo – integerrimo custode dei conti del Banco – venne estromesso dalla guida dell’istituto di credito. Crispi gli offrì, a compensazione e forse per comprarne il silenzio, l’incarico di prefetto di Palermo. Notarbartolo rifiutò. Avesse accettato, si sarebbe reso complice, così disse lui stesso, di un «abietto vassallaggio politico». E continuò, in virtù del suo indiscusso prestigio, a «sorvegliare» le attività del Banco. Banco che per ritorsione, con una serie di cavilli, non volle riconoscere il diritto di Notarbartolo a riscuotere la pensione. L’uomo fu costretto a fare causa. Vinse. Ma il Banco ricorse in appello. Notarbartolo ottenne soddisfazione una seconda volta. Solo nel 1893, dopo la sua uccisione, il consiglio deliberò la rinuncia a un nuovo ricorso in Cassazione contro il «già sapiente direttore di questo Banco». Un riconoscimento, quest’ultimo, alquanto tardivo.
Palizzolo, il nemico di Notarbartolo, era, secondo Ciconte, «di tutt’altra pasta» rispetto all’ucciso. Un politico di lungo corso, «abituato a cambiare casacca e a fare politica aggrappandosi a chiunque potesse dargli un voto che fosse utile a farlo eleggere». Ci fu chi «lo elogiò e lo sostenne oltre ogni ragionevolezza» e ci fu chi «lo condannò aspramente per i suoi rapporti oscuri e i legami con briganti e con mafiosi conclamati». Tutti erano d’accordo nel riconoscergli «una grande capacità di rapporti personali con chiunque, senza guardare alla qualità delle persone, se fossero oneste o se fossero dei gaglioffi, o, peggio, dei criminali».
Era, per Ciconte, un «accaparrapoltrone». All’inizio degli anni Ottanta presiedeva oltre cinquanta associazioni economiche e politico-culturali nella provincia di Palermo. Si vantava, Palizzolo, di non essere «uomo di parte». «La sua casa era perennemente aperta a chiunque volesse», riferì, al processo, il proprietario terriero Eugenio Oliveri. Un altro testimone, Girolamo Isabella, raccontò che «da Palizzolo si andava la mattina presto e riceveva tutti a letto»; i suoi interlocutori, disse ancora Isabella, «prima di esporre il problema dovevano sentire le sue poesie o i discorsi da lui fatti alla Camera». Un secondo possidente, Giuseppe Petro, confermò queste abitudini del parlamentare banchiere: Palizzolo «aveva la vanagloria di essere una persona influente, di ricevere le persone stando a letto e scrivere per loro lettere di raccomandazione». «Loro», specificò Petro, potevano avere le sue stesse, peraltro mutevoli, idee politiche o anche quelle opposte. Non era importante. E anche la mafia… Un magistrato raccontò che Palizzolo gli aveva raccomandato alcuni mafiosi, ma che lui aveva continuato a frequentarlo perché voleva che aiutasse suo figlio a «passare gli esami». Il questore Michele Lucchesi rivelò candidamente che lui stesso e altri funzionari di polizia erano stati «intimi» di Palizzolo dal momento che la sua «casina» era aperta a tutti.
I suoi rapporti con la malavita organizzata vennero alla luce sin dalla prima volta che provò a presentarsi alle elezioni, allorché il prefetto di Palermo Antonio Malusardi e il ministro dell’Interno Giovanni Nicotera impedirono a lui e al suo rivale, Giuseppe Torina, di candidarsi a causa dei sospetti che gravavano sul loro conto. Si difese, Palizzolo, vantando che dal 1870 al 1899 era sempre stato consigliere comunale di Palermo e, tenne a specificare, «anche quando io ero già in arresto riportai mille e novecento voti». Ai giudici che gli chiedevano conto di alcune intercessioni a favore di malavitosi ammise dicendo: «Talvolta ho potuto espletare qualche pratica anche per persone di non assoluta onestà». Poi però si rivolse provocatoriamente ai magistrati: «Ma non fanno così tutti i deputati del regno?».
Molti siciliani illustri, di destra e di sinistra, si schierarono dalla sua parte. Nella Storia della Sicilia medievale e moderna (Laterza), Denis Mack Smith notò come «un pericoloso e spesso isterico patriottismo locale era stato fomentato fra i siciliani tanto di destra quanto di sinistra» i quali – per quanto venuti in urto con Palizzolo per il fatto che «aveva messo in luce l’aspetto peggiore della barbara macchina politica palermitana» – erano «irritati anche di più per l’altera e talvolta sprezzante reazione dei settentrionali».
Fu così che, appena Palizzolo venne condannato, si formò in sua difesa un comitato trasversale «Pro Sicilia», che impensierì non poco il governo di Roma. L’attività di questo comitato, scrive Ciconte, «esercitò un vero e proprio ricatto, minacciando agitazioni popolari che avrebbero avuto la copertura dell’aristocrazia e della borghesia ai massimi livelli». Sicché negli «ambienti governativi più avvertiti» emerse la convinzione – una sorta di «opportunismo pragmatico» – che, come ha scritto Sergio Turone in Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2 (Laterza), non avesse senso «rischiare che gli amici di Palizzolo scatenassero una regione intera contro il potere centrale». In questo clima di «condiscendente omertà», secondo Turone «la magistratura fiutò i voleri della classe politica» e, tramite la Cassazione, inaugurò il nuovo corso che avrebbe portato all’assoluzione di Palizzolo. Il quale comunque – notò Gaetano Mosca anch’egli colpito dal fatto che la casa di Palizzolo «fosse indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi» – al di là dell’assoluzione finale, era apparso nella sua luce peggiore «se non delinquente, almeno protettore di delinquenti e sospetto perfino di relazioni coi briganti».
Nel novembre 1899 fu il figlio di Notarbartolo, l’allora trentenne Leopoldo, ad accusare Palizzolo – nel corso delle udienze milanesi – di essere il mandante dell’uccisione di suo padre. L’allora giovane e sconosciuto prete di Caltagirone, Luigi Sturzo, prese spunto dalle parole del giovane Leopoldo per denunciare i «tentacoli» della mafia: su Palermo sì, ma anche su Roma e su Montecitorio. Palizzolo si difese confermando di essere stato «sempre in lotta con l’ucciso», ma ricordando che con lui c’era la maggioranza del consiglio del Banco di Sicilia e ponendo la domanda: «Da quando in qua la discrepanza di opinioni in un consesso può elevarsi a delitto?». Il clima però era cambiato. L’omertà si era incrinata: fu arrestato in aula il commissario di pubblica sicurezza Francesco Di Blasi, uomo di Palizzolo, di cui venne provato il depistaggio delle indagini. Il questore di Milano Eugenio Ballabio definì Di Blasi «il Mefistofele della questura di Palermo», colui che «ci ha tratto fuori di strada». Di Blasi si limitò a riconoscere che talvolta Palizzolo gli aveva raccomandato «qualche persona forse non troppo rispettabile». Però aggiunse: «Le raccomandazioni per persone non meritevoli non me le ha fatte il solo Palizzolo, ma tutti i deputati anche dell’Alta Italia». Un esponente politico d’alto rango, Antonio Starabba marchese di Rudinì, siciliano, già presidente del Consiglio, espresse a quel punto la preoccupazione che Milano fosse diventata un «palcoscenico» dove finivano sotto i riflettori «le centinaia di testimoni provenienti dalla Sicilia, vestiti in strane fogge, che si esprimono in un idioma reso comprensibile solo da interpreti nominati dai magistrati». Il Parlamento tremò e concesse l’autorizzazione all’arresto di Palizzolo.
Nel 1901 il processo si trasferì a Bologna. Qui la celeberrima dichiarazione di Ignazio Florio, rappresentante della potente dinastia siciliana: «La maffia? Non l’ho mai sentita nominare… È incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni? Mai! Mai!». Palizzolo, contro il quale si erano addensate prove ancorché non definitive, venne condannato a trent’anni. Il prefetto bolognese Giacomelli telegrafò al ministero dell’Interno informandolo che alla lettura della sentenza «folla numerosa applaude accompagnando difensori parte civile». Ma la Sicilia si ribellò e la Cassazione si vide «costretta» ad annullare il processo per vizi di forma. Tutti assolti. L’esecutore del delitto, Fontana, andò a New York, aprì una pizzeria che divenne punto di ritrovo degli affiliati alla «Mano Nera» e dopo un po’ fu assassinato. Palizzolo riuscì persino a far dimenticare il suo nome. Nome che ebbe nuova fama, moltissimi anni dopo, nel 1993, come protagonista dello straordinario romanzo Il Cigno (Rizzoli) di Sebastiano Vassalli.