Corriere della Sera, 11 novembre 2019
Biografia di Susanna Egri raccontata da lei stessa
Susanna Egri sembra fatta per entrare a passo di danza nell’eternità. A 93 anni affronta le scale con l’agilità di una dodicenne. Gianfranco De Bosio, marito della sorella Marta, regista del Mosè televisivo e dell’Aida all’Arena di Verona di cui lei ha curato le coreografie, mi ha confidato ridendo di aver sospettato che sia sua coetanea e che per civetteria si tolga due anni. «Sono nata nel 1926», smentisce la cognata. Questo 2019 è per lei un susseguirsi di anniversari tondi. Sono trascorsi 80 anni dal 7 ottobre 1939, quando Erno Egri Erbstein scrisse alla figlia una lettera che dovrebbe figurare nei testi di scuola («la conservo nel caveau di una banca»); 70 dalla scomparsa del padre, l’artefice del Grande Torino, morto con l’intera squadra nel disastro aereo di Superga; 70 dall’esordio della danzatrice nei programmi sperimentali della Rai; 65 dal balletto del varietà Sette note nella prima serata di trasmissioni della tv di Stato.
Nel 2020 ricorreranno i 70 anni dall’apertura della sua scuola a Torino. La Fondazione Egri per la danza ha sede nel quartiere bene della Crocetta, in via Vico, di fronte alla Casa dei bovi, quella con quattro teste di bue sulla facciata, dove abitò Leone Ginzburg. Da qui sono usciti 10.000 ballerini e molte étoile. «Nei foyer mi avvicina qualche vegliarda: “Si ricorda di me? Ho frequentato i suoi corsi”. Ogni volta è un tuffo al cuore. In città si diceva che una ragazza o è allieva della Egri, o lo è stata, o lo sarà. Oggi ai giovani manca l’alfabetizzazione del corpo, inseguono le sciocchezzuole modaiole».
Perché nel 1939 suo padre le scrisse?
«A causa delle leggi razziali mi avevano espulsa dal liceo di Lucca. Fervente cattolica, manco sapevo che i miei avi paterni fossero ebrei. Andavo a messa, a casa nostra festeggiavamo Natale e Pasqua. In pagella avevo 10 in religione cattolica e la media del 9 nelle altre materie».
Che cosa le diceva nella lettera?
«M’invitava a studiare i santi del Medioevo. Gliene leggo alcuni passi: “Figlia mia carissima, io ti scrivo in italiano, perché voglio che tu non dimentichi di aver avuto un’educazione italiana, latina, toscana. Non puoi immaginare quale tormento e preoccupazione sia per me vederti costretta a cessare i tuoi studi, nei quali hai riportato tanti onori. Se tu in tutte queste dolorose vicende e contro qualsiasi avversità rimani con la testa alta, forte di animo e di spirito, se il tuo sguardo non si stacca dall’ideale, se la tua volontà non cede dinanzi agli ostacoli, se i tuoi desideri rimangono sempre cristallini, non attratti dal lusso, dai divertimenti, dal facile vivere, tu sarai quella che io sogno tu debba divenire: un essere superiore, un poeta, una scrittrice, una scienziata...”».
Una coreografa.
«A Budapest, tredicenne, presi a frequentare la Scuola di ballo e belle maniere fondata da mia madre. È morta a quasi 97 anni, nel 1994».
Si era ripresa dalla perdita del marito?
«Dopo la strage di Superga, la mamma ha abitato con me, l’ho aiutata a tirare avanti. Si erano conosciuti a 20 anni e sposati a 25. A 50 lui era già morto. È sepolta a Verona, nella tomba della famiglia De Bosio. Io ho già pronto il loculo accanto al babbo, a Valentino Mazzola, a Ezio Loik, a Guglielmo Gabetto e agli altri campioni, nel cimitero di Torino».
Era legatissima a suo padre.
«Avevo 14 anni quando Ferruccio Novo lo chiamò dalla Lucchese. Sono cresciuta sui campi di gioco. L’ho visto inventare il calcio moderno: i ritiri precampionato ad Ala di Stura, il passaggio dal metodo al sistema, il riscaldamento... Curava ogni dettaglio. Dai banchi del liceo classico fu arruolato come ufficiale nella Grande guerra. Era un umanista dello sport. Come disse l’attore Raf Vallone, che era stato un giocatore granata, “una muta di cervi guidata da un leone è più forte di una muta di leoni guidata da un cervo”. Dopo di lui, non c’è più stata una squadra come il Grande Torino, né un altro condottiero degli immortali».
Quando fu l’ultima volta che lo vide?
«Il 30 aprile 1949. Per me è quella la data dell’addio, quando mi salutò con un gesto della mano e un sorriso mentre l’auto riportava me e la mamma a Torino. Avevamo assistito alla partita con il Milan. Il giorno dopo volava a Lisbona per l’amichevole con il Benfica. Cenammo con lui e i giocatori all’hotel Touring. Il caffè lo presi con Mazzola: capitava spesso che lui e suo figlio Sandro pranzassero con il babbo e con me».
In che modo venne a sapere della sciagura di Superga?
«Il 4 maggio ero in partenza per Parigi. Appena salita sul treno, udii una frase: “È caduto l’aereo del Torino, sono morti tutti”. Corsi a casa da mia madre e da mia sorella. Non sapevano nulla. Avevo prestato al babbo la valigia, intimandogli: la rivoglio indietro. La trovai intatta fra i rottami. Dentro c’era questa bambolina in costume portoghese per la mia collezione». (La accarezza). «In ogni Paese dove andava me ne comprava una. L’ho portata in tutto il mondo. Non farei mai uno spettacolo senza averla con me».
Come sfuggiste all’Olocausto?
«Papà ebbe l’acume di cambiarsi il cognome Erbstein in Egri, che era ungherese ma sembrava italiano. E si fece chiamare Ernesto, anziché Erno. All’avvento delle leggi razziali, propose al presidente Novo uno scambio di ruoli con il compatriota Ignác Molnár, allenatore del Rotterdam. Così il 17 febbraio 1939 partimmo per l’Olanda. L’indomani compii 13 anni in treno: il babbo mi regalò L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, un’edizione in italiano e latino. Ma le autorità di frontiera ci annullarono il visto d’ingresso con un frego rosso. Finimmo in un alberghetto con la stella di David pitturata sulla facciata, senza vetri alle finestre, perché ogni notte i fanatici della Gioventù hitleriana li tiravano giù a sassate. La mamma cadde malata, non riusciva più ad alzarsi dal letto. Un nuovo visto giunto dal consolato olandese di Torino fu invalidato come il primo. A quel punto mio padre decise di riparare a Budapest. Novo gli fece avere la rappresentanza di alcune industrie tessili italiane, in cambio si faceva suggerire i calciatori da comprare e le tecniche di gioco».
Non che l’Ungheria fosse più sicura.
«Fino al 1944, vivemmo nel benessere. Dopo l’occupazione nazista, il babbo finì ai lavori forzati. Io trovai rifugio in un pensionato cattolico femminile trasformato da padre Klinda in fabbrica militare, dove riuscii a far assumere anche mia madre e mia sorella. Una domenica mattina i sanguinari delle Croci frecciate vennero a rastrellare le operaie per deportarle. Ci salvò il fatto che ero stata chiamata a porgere il benvenuto in italiano al nunzio apostolico Angelo Rotta. Avvertito dell’irruzione, l’arcivescovo si ricordò di me e allertò il governo magiaro, minacciando una crisi diplomatica: sul tetto dell’edificio sventolava la bandiera vaticana. Gli aguzzini ci liberarono. Poi Rotta fu riconosciuto Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme. Sono viva grazie alla Chiesa. Tuttavia considero le religioni alla stregua delle malattie esantematiche. Conosco più il buddismo che il cattolicesimo e l’ebraismo. Le fedi sono importanti per l’umanità, ma dividono. Ne sto al di sopra».
Al di sopra c’è Dio. Non ci crede più?
«Sono stata la coreografa della Pro civitate christiana di Assisi, certo che ci credo. Ma non a quello dalla lunga barba bianca. Ho fede nell’Essere supremo, nell’energia da cui è nato il mondo».
Quando ritornò in Italia?
«Nell’agosto 1946. A gennaio mi ero sposata con un aristocratico di Trieste. Io avevo 19 anni, lui 30. Ci separammo in fretta. Andai a Milano, dove speravo di far carriera nella danza. E poi mi ricongiunsi a mio padre, richiamato al Torino quell’anno come direttore tecnico».
Non è ancora stanca d’insegnare?
«Finché le membra mi assistono...».
Teresa Bello, che fu la tata di Carla Bruni, mi ha raccontato che la futura madame Sarkozy venne respinta da lei con la seguente frase: «Questa bambina non diventerà mai una ballerina. È troppo lunga e ha i piedi troppo grandi».
«È una leggenda. Non direi mai una cosa simile di una fanciulla. Ebbi come allieva la sorella Valeria, ma Carla non fece in tempo a frequentare la mia scuola: la famiglia si trasferì a Parigi, spaventata dai sequestri delle Brigate rosse. Ero molto amica dei genitori, il compositore Alberto Bruni Tedeschi, proprietario della Ceat, e la pianista Marisa Borini».
È molto amica anche di Piero Angela.
«Esordì come me alla Rai di Torino. Ha sposato una mia allieva, sono la madrina della sua primogenita Cristina. Mi dice sempre: “Susanna, sei straordinaria, ma hai commesso un grave errore: non te ne sei andata da questa città”».
Chi le assomiglia di più? Carla Fracci? Luciana Savignano? Liliana Cosi?
«No, no, no. Raphael Bianco, nato a Bombay. Un figlio, per me. L’ho cresciuto dall’età di 12 anni e ora dirigiamo insieme la Compagnia Egri Bianco danza».
Lanciò anche Luigi Bonino.
«Mi ha telefonato ieri da Monaco di Baviera. A 70 anni ancora si esibisce nel balletto Coppélia di Roland Petit».
Albert Einstein: «I ballerini sono gli atleti di Dio». L’avrà detto davvero?
«Penso di sì. È quello che ci ha ripetuto anche papa Francesco, ricevendoci in udienza: “Siete molto vicini a Dio”».
A che cosa serve la danza?
(Si ripete la domanda e ci pensa). «A essere dentro il proprio corpo. La maggior parte delle persone è limitata, perché non sa esternare i sentimenti con il movimento. I ballerini sono gli unici esseri umani interi: per esprimerci usiamo fisico, mente e spirito. Aver reso felice il pubblico mi dà la certezza di non aver vissuto inutilmente».