La Stampa, 11 novembre 2019
In Italia 10 persone al mese cambiano sesso
Cambiare genere sessuale, per Maria Stefania Migliore, è stato «come fare bungee jumping». Emozione fortissima. «La sera prima dell’intervento ero molto nervosa: ho mandato mia madre a casa, ho preso delle gocce calmanti, musica nelle orecchie e mi sono addormentata. Poi è stato tutto in discesa». Siciliana, direttrice artistica in un centro di consulenza di immagine a Palermo, Maria Stefania descrive così il suo passaggio da uomo a donna.
A 24 anni, si è operata dopo 7 di terapia ormonale: «È stato come tuffarsi da un trampolino altissimo – racconta –. Sono dolori di vita, tipo diventare madre: soffri, ma dopo provi una gioia immensa». A quasi 90 anni dalla prima operazione con cui Lili Elbe da uomo è diventata donna in Danimarca, sono circa un centinaio all’anno le persone che in Italia si sottopongono a interventi chirurgici per la riassegnazione del genere, in centri pubblici specializzati, con il Servizio sanitario nazionale, quindi pagando solo il ticket per le visite: operazioni che vanno dall’adeguamento del torace alla chirurgia dei genitali. Hanno dai 17 ai 60 anni. E sono in aumento.
Negli ultimi tre anni c’è stata una crescita esponenziale delle domande e degli interventi, con un exploit delle donne che decidono di diventare uomo: se fino a qualche anno fa erano due su dieci, oggi siamo quasi alla parità. E decine di persone sono in attesa di essere operate: solo a Pisa ce ne sono 150 che aspettano. Cresce anche il numero dei minori che intraprende il percorso di transizione, con il placet dei genitori. E c’è stata un’evoluzione sul fronte giuridico. Fino a 4 anni fa per modificare i connotati sulla carta di identità – materia disciplinata dalla legge 164 del 1982 – bisognava operarsi. Ora non c’è più l’obbligo, come sancito da una sentenza della Corte costituzionale del 2015. Inoltre, dalla scorsa estate la disforia di genere, ossia il disagio legato al non riconoscersi nel proprio corpo, non è più considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità un disturbo psichico, ma una condizione sessuale.
I dati e il fenomeno
Nell’ultimo anno circa 120 persone si sono sottoposte a interventi di riassegnazione di genere nei cinque ospedali pubblici italiani specializzati in materia, individuati dalla Sicpre, la Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica che segue da vicino il fenomeno con i suoi specialisti. Si tratta del Cidigem, Centro interdipartimentale disforia di genere alle Molinette di Torino; Cattinara Asuits, Azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste; Azienda ospedaliera universitaria di Pisa in tandem col Careggi di Firenze; San Camillo di Roma e Paolo Giaccone di Palermo. Il bisturi arriva dopo un percorso di almeno due anni in cui il paziente (o la paziente) è seguito da un pool di psicologi, psichiatri, urologi o ginecologi, endocrinologi e chirurghi plastici che dovrà accertare che la persona in questione vive uno stato di disforia di genere. Con i certificati medici, il paziente potrà recarsi dal giudice per ottenere la sentenza di via libera alla riassegnazione del genere, con la conseguente modifica anagrafica.
Gli interventi più complessi per diventare donna sono l’eliminazione del pene (penectomia) e la ricostruzione della vagina (vaginoplastica). In un momento successivo si può valutare se ingrandire il seno e fare altri ritocchi per femminilizzare voce e volto. Per chi vuole diventare uomo, invece, il primo intervento a cui sottoporsi è la riduzione del seno a cui può aggiungersi – ma c’è chi effettua gli interventi in contemporanea – l’asportazione di utero e ovaie. Segue la metoidioplastica, che permette di trasformare il clitoride in un piccolo pene funzionale per urinare. C’è poi la falloplastica, operazione molto più delicata: è l’impianto sul clitoride di una protesi del pene fatta con un lembo dell’avambraccio che consente di avere un’erezione, per una vita sessuale attiva. Il 60% dei pazienti che si rivolge a centri pubblici chiede di diventare donna, il restante 40% vuole modificare il genere in uomo.
Donna vs uomo
«Negli ultimi 5 anni – dice Regina Satariano, responsabile del consultorio transgenere in Toscana e vicepresidente dell’Onig, l’Osservatorio nazionale sull’identità di genere guidato dal professor Paolo Valerio – c’è stato un boom di donne determinate a diventare uomo: in Toscana la percentuale si è invertita, ora sono 7 su 3. E tale dato incide anche a livello nazionale dove ormai c’è una situazione quasi di parità». Boom di donne che chiedono di diventare uomini anche a Torino, Trieste e Pisa. A Palermo, invece, la proporzione è ancora capovolta. Lo spiega Adriana Cordova, già presidente Sicpre, direttrice del reparto di chirurgia plastica a Palermo: «Il 90% delle persone che si rivolge a noi sono uomini in partenza. Anche padri di famiglia 50enni. La maggior parte ha un’istruzione di scuola media; chi ha maggiori possibilità economiche si opera all’estero per poi fare i ritocchi in Italia». Il centro che fa più interventi è quello di Pisa. «Nel 2011, quando abbiamo iniziato, facevamo 6 operazioni all’anno, oggi sfioriamo le 60 – spiega Girolamo Morelli, urologo di fama internazionale – con 4 sedute a Pisa e due a Firenze. La fascia più rappresentativa sono i 20-30enni. E vengono da noi anche molti adolescenti con i genitori».
I minori
Uno dei centri più attenti ai minori è quello di Torino, dove nel 2012, grazie alla collaborazione del Cidigem con la Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita, è iniziata la presa in carico di ragazzi in età evolutiva. «In sei anni sono stati seguiti 122 minori – spiega Giovanna Motta, endocrinologa nello staff del professor Ezio Ghigo al Cidigem – Dietro c’è una grossa sofferenza: ci sono casi di autolesionismo, minacce di suicidi, ragazzi che lasciano la scuola. È un dolore che si percepisce. La disforia può esordire già in età prescolare-scolare, e ha esiti clinici diversi. Il tasso di persistenza dall’età infantile all’adolescenza varia dal 12 al 27%. Al contrario, quando il disagio si manifesta più avanti, in pubertà, raramente sparisce, anzi persiste in età adulta». Essenziale quindi non sottovalutare i segnali del disagio sin da piccoli.
Complicazioni post intervento
La delicatezza delle operazioni, in particolare vaginoplastiche e falloplastiche, comporta un margine di rischio legato alla buona riuscita degli interventi. Non a caso gli specialisti italiani si aggiornano nei centri europei più all’avanguardia quali Belgrado, Londra e Gand, oltre che in Thailandia. «C’è una piccola percentuale di complicazioni, un 10% – spiega l’urologo Morelli – Il rischio nelle nuove donne è che la cavità vaginale si richiuda. Per questo a Pisa e Firenze pratichiamo la tecnica della colonvaginoplastica, usiamo cioè un’ansa del colon invece della pelle dello scroto e del pene. Così facendo, riusciamo a dare alla nuova vagina 15 anziché 12 centimetri di profondità e una maggiore elasticità». Complessa è anche la falloplastica, che a volte può causare un rigetto o infezioni. «I casi gravi di rigetto sono 2-3%», spiega Cordova. «È importante che le Regioni capiscano il valore di avere équipe specializzate nel dare una risposta a chi chiede la riassegnazione del genere, e il Piemonte da questo punto di vista è avanti – nota l’endocrinologa Giovanna Motta – Spesso ci ritroviamo a dover intervenire su pazienti che hanno fatto interventi in ospedali non specializzati e che hanno avuto problemi enormi. È invece essenziale rivolgersi a un centro competente». Oggi il paziente nella scelta è aiutato anche da social e forum in cui confrontarsi e postare foto dei risultati post-operatori.
La sessualità cambia
Ma cosa succede dopo gli interventi, quando inizia la nuova vita? Ci sono rischi di instabilità mentale? Risponde Chiara Crespi, psicologa clinica, esperta in sessuologia, del Cidigem di Torino: «Se le persone hanno fatto un buon percorso, la qualità della vita per loro migliora. In caso contrario, si corre qualche rischio in più. Fondamentale è intraprendere un iter con professionisti formati che sappiano accompagnare la persona in ogni fase». Un aspetto importante è l’approccio alla nuova sessualità: «Molto dipende da come si viveva l’intimità prima del percorso di transizione. Ci sono transgender che non riescono a spogliarsi davanti al partner – spiega la specialista – che superano questo freno dopo la terapia. Parlando in generale, dopo l’operazione si modifica la percezione del desiderio e del piacere, cambiamento che inizia con la cura degli ormoni durante la quale di solito le donne che diventano uomini dicono di avere più desiderio, mentre all’opposto si rileva un abbassamento della libido. In realtà si tratta di un cambio di forma. È quindi importante fare un lavoro sessuologico, partendo dall’autoerotismo, per sperimentarsi nella nuova fisicità». L’Asuits di Trieste eccelle nella chirurgia plastica di mascolinizzazione del torace per chi diventa uomo. «A seconda del tipo di ghiandola mammaria ci sono due tipi di intervento – spiega Vittorio Ramella, chirurgo plastico a Trieste – Uno lascia più cicatrici e l’altro meno, è il corpo del paziente che determina la scelta. E molti fanno solo quell’operazione. Non tutti hanno bisogno del fallo per sentirsi sereni, a molti basta mettersi una maglietta per andare in palestra o in spiaggia. Per questo ci sono persone che mantengono l’apparato esterno vaginale, togliendo utero e ovaie e adeguando il torace. Ognuno vive la sessualità in modo diverso».
C’è chi si pente?
Le operazioni sono irreversibili. Il pentimento esiste, ma è raro. «Dal 2013 ad oggi a Palermo ho avuto un solo caso di un uomo di 30 anni che, una volta operato, mi ha detto avrebbe rivoluto il suo pene», dice Cordova. Ma è un’eccezione. «Una decisione del genere non è mai improvvisata – spiega la psicologa Crespi – E c’è chi aspetta per vergogna o perché vuole una famiglia, ma il desiderio di sentirsi se stessi è radicato». È una rinascita. E basta ascoltare Maria Stefania Migliore per convincersene: «Questi 5 anni sono stati bellissimi, non ho avuto problemi di pregiudizi, i miei e gli amici mi hanno sostenuto. Sì, lo rifarei». Perché come diceva Kafka, "da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare".