la Repubblica, 11 novembre 2019
La rivincita di Caspar David Friedrich
Caspar David Friedrich è il più grande pittore tedesco del diciannovesimo secolo. Dapprima venne trascurato e dimenticato, come se fosse un artista di second’ordine. Solo da pochi anni è stato riscoperto: ricordo l’eccellente volume di Norbert Wolf (pubblicato da Taschen) con eccellenti riproduzioni e commenti. La copertina è un simbolo: un uomo, certo Friedrich, salito su una roccia, visto di schiena, contempla mari di nuvole e l’oceano dell’infinito.
Friedrich era nato in una cittadina provinciale del Mar Baltico: lì si sentiva rinchiuso, ma solo per liberare lo spirito verso tutto ciò che è illimitato e senza fine. Era nato a Greifswald il 5 settembre 1774, da una famiglia nobiliare: il padre era un severissimo luterano. Egli perse la madre a sette anni; sei anni dopo uno dei cinque fratelli annegò miseramente in un lago ghiacciato. In un famoso autoritratto, non sembra un entusiasta: lo sguardo è penetrante, fermo, vagamente scettico. L’occhio destro ha qualcosa di minaccioso: qualcosa di schizoide, direbbe uno psichiatra moderno. Presto fu assalito da una terribile angoscia, da una illimitata desolazione; e già nel 1801 tentò vanamente di uccidersi. Nel 1794 si recò a Copenaghen per frequentare l’Accademia, e conobbe i miti di Ossian. Subì molte influenze: Böhme, von Kleist, Edmund Burke, Turner, Klopstock, John Constable, e le bellissime pagine di Goethe sulle nubi. Senza timore, arditamente cercò dovunque il suo bene. Non lo trovava da nessuna parte, perché abitava sempre altrove, sulle rive terribili dell’infinito.
Friedrich si trasferì a Dresda, la città amata dagli scrittori russi. Era poverissimo. Da principio predilesse il disegno a penna, inchiostro ed acquerello e seppia. Poi si volse verso la pittura ad olio, dipingendo il grandioso Relitto nel mare di ghiaccio.
Preferiva guardare lontano, con le spalle rivolte all’osservatore. Rifletteva su ciò che era vicino e su ciò che era lontano. Distingueva tra l’occhio fisico e il profondo occhio spirituale, quello che chiamava “l’occhio interiore”. Come Novalis, voleva dare al finito una apparenza di infinito. Voleva romantizzare. Non domandava altro. Diventò amico di un grande pittore: Otto Runge, prediletto anche da Goethe.
Scelse un argomento amatissimo: non le cose della vita quotidiana, ma le grandi masse di nebbia che colmano il cielo, o la tenebrosa profondità della notte, e gli alberi di ogni specie. Cercava il vago, l’indistinto, l’illimitato, rivaleggiando forse con il più grande pittore inglese: Turner. Ma la nebbia non gli bastava. Intrecciava le nebbie e gli altissimi alberi protesi verso il cielo, verso il Cristo e la Trinità. «Sulla cima – scrisse – si erge svettando la Croce, attorniata da alberi perenni, mentre l’edera sempreverde ne avvolge il fusto. Il sole sprofonda splendente, e nel porpora del rossore vespertino rifulge il Redentore sulla croce». Dovunque croci altissime, croci e croci, tra le querce e le montagne, su superfici immense.
Secondo Friedrich, la natura è religiosa; ed ecco i capolavori seguire i capolavori: il Monaco in riva al mare, che venne definito il quadro più audace del romanticismo tedesco: senza regole, senza profondità prospettica: tutte le linee fuggono oltre il quadro, in un perenne al di là. Non c’è che infinito. Oppure le Bianche scogliere di Rügen, dipinte durante il viaggio di nozze – con abissi, abissi ed abissi, precipizi e precipizi, scogliere e scogliere. C’è un movimento d’ascesa verso un Dio senza nome, un Dio che Friedrich non conosceva – ma che di colpo si concentrava nelle figure altissime di Cristo o in una non meno altissima Croce. C’è speranza, speranza – che Cristo ribadisce: ma anche disastro, quella che egli chiama “bellezza negativa”, vuoto, vuoto, vuoto, abissi di vuoto, vuoto di abissi – ripetuto fino all’ossessione. La luna splende nel cielo o è nascosta dalle nuvole. «Sali in cima al monte e guarda oltre le lunghe catene di colline. Dentro di te c’è un raccoglimento silenzioso. Ti perdi nella speranza sconfinata, tutto il tuo essere subisce una purificazione tacita, il tuo io scompare, non sai niente. Dio è tutto. Ricorda l’effetto purificatore dell’alta montagna, immagina che l’etere sia la sostanza del più eccelso dei cieli divini» – la quinta-essentia, come nel Faust. Sulle tele di Friedrich, non ci sono che pennellate che inseguono pennellate. Egli era, come disse, un “mistico del pennello”. «Devo arrendermi a ciò che non ricordo, devo fondermi con le mie nuvole e le mie rocce per essere solo me stesso». Vuole che l’anima sia tesa fino all’estremo. Rappresenta mari, alberi, porti e navi, e la falce della luna crescente e calante, e lievi aree di colore che spaziano dal giallo chiaro al rosso fiammante fino al grigio dell’orizzonte. Ha bisogno di altezza e di vastità. La vita della natura offre le stesse esperienze della vita sacramentale. «La fine dell’uomo non è l’uomo stesso, ma il divino. L’infinito è la sua meta. La natura è solitaria e selvaggia». Non scese mai in Italia. Progettò soltanto (ma non realizzò) un viaggio nella desolata Islanda, le sue isole e i suoi vulcani. Secondo l’opinione generale, il capolavoro assoluto di Friedrich è Il mare di ghiaccio (1823-4), un quadro sublime, che resta impresso nella memoria di tutti. L’abisso è sottolineato: il disastro, la rovina, la frantumazione, la catastrofe, la probabile fine dell’universo davanti ai nostri occhi. Il mare si solidifica diventando ghiaccio: la nave è stritolata, votata alla morte, ma il cielo chiaro sembra offrire un pallido barlume di salvezza. Il cielo resta, ma non è affatto certo che possiamo sperare in un mondo migliore, al di là della storia e della morte.
Il 2 gennaio 1818 Friedrich sposò Carolina Bommer, una sassone intelligente e spiritosa. Aveva venticinque anni e Friedrich quarantaquattro. Forse era solo la sorella del commerciante che gli forniva le matite. Il pittore fu geloso: e la maltrattò duramente.
Negli ultimi anni, Friedrich decadde. I suoi quadri non vennero più acquistati dalla casa reale di Prussia. Ma ricevette un ordine nobiliare dallo Zar, che lo apprezzava. Nel 1824 si ammalò: aveva dipinto furiosamente e con troppa foga. Si chiuse in se stesso, rinunciando ai ghiacci, alle chiese, agli alberi, alle acque sovrane. Il 26 giugno 1835 fu vittima di un colpo apoplettico, che gli provocò una paralisi agli arti superiori ed inferiori. Non poteva più dipingere ad olio. Disegnava faticosamente. Era ossessionato dalla morte; e disegnò paesaggi di una “desolazione quasi folle”. Temeva di lasciare in povertà la famiglia. Piangeva continuamente come un bambino, come annotò il poeta russo Žukovskij, che era tornato a trovarlo. Poche settimane più tardi, Friedrich morì. Era il 7 maggio 1840. Tre giorni dopo fu sepolto nel Trinitatisfriedhof di Dresda. David D’Angers lo definì come l’uomo che dipinse “la tragedia del paesaggio”. Vincent van Gogh e Piet Mondrian cercarono di imitarlo.