la Repubblica, 11 novembre 2019
Quanti sono e dove gli italiani in guerra
A prima vista, l’Italia è un cattivo alleato della Nato. Spende solo l’1,15% del Pil in Difesa, una cifra inferiore alla media dei Paesi che fanno parte dell’Alleanza. Non svolge missioni di combattimento, a differenza di quanto fanno i francesi o gli statunitensi – un approccio che ha creato anche diversi malumori con Parigi, per esempio sulla missione italiana in Niger. Ma sul terreno le cose sono un po’ diverse.
L’Italia ha più di settemila soldati impiegati in aree di crisi e di conflitto, dalla Libia all’Iraq, passando per il corno d’Africa e il Sahel. Si tratta nella gran parte di missioni di addestramento, mentoring and training, come in Iraq, o di peacekeeping, come la missione Unifil in Libano, nata nel 1978 ma che dal 2006, al termine dell’ultima guerra fra Israele e il Libano, è stata rafforzata ed ha il compito di presidiare la blue line, la linea di confine fra i due Paesi. «Non si tratta di guerra e di pace, ma di stabilizzare intere aree percorse da conflitti latenti, a bassa intensità ma ad alto rischio», dice un funzionario della Difesa che ha lavorato in Medio Oriente.
A luglio, il Parlamento ha licenziato il decreto che autorizzava il rinnovo delle missioni militari all’estero fino alla fine del 2019: 7.343 operativi impiegati sul campo (erano 7.967 l’anno scorso), 37 missioni in 22 Paesi; un costo totale che supera 1 miliardo e 100 milioni di euro.
Se si guarda al numero di militari inviati in teatri di crisi, il Medio Oriente e l’Asia sono sicuramente le zone dove la presenza italiana è più forte. Ma dal punto di vista strategico è l’Africa la regione su cui l’Italia ha spostato ormai da qualche tempo la sua attenzione.
Nel 2015, quando era ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni lo definì il Pivot to Mediterranean, la svolta Mediterranea: ridurre gradualmente la presenza in Medio Oriente, in Iraq e Afghanistan soprattutto, per concentrarsi sul Mediterraneo, la Libia, in primis, e nella regione del Sahel, centrale sia per il controllo dei flussi migratori che per il contrasto del terrorismo. Nacque così l’idea di una missione militare in Niger per controllare il confine sud della Libia, ma partita di fatto solo all’inizio dello scorso anno e ancora non pienamente operativa. «Per ora siamo a Niamey, la capitale. Il progetto iniziale prevedeva un ampliamento della missione di addestramento anche ad Agadez, al confine con la Libia, ma al momento è fermo», spiega Gianandrea Gaiani, analista esperto di affari militari. I contrasti con i francesi, che chiedevano il coinvolgimento italiano nelle operazioni di combattimento, hanno ritardato l’avvio della missione. La presenza degli americani, poi, a cui Roma fa riferimento, e che in Niger hanno la loro principale basi di droni nel Sahel, non ha facilitato il dialogo con Parigi.
Poi c’è la Libia, un Paese in guerra cruciale per la sicurezza e gli interessi nazionali. L’Italia sostiene il governo di unità nazionale di al Serraj di Tripoli, che è appoggiato dalle Nazioni Unite, e foraggiato, economicamente e militarmente, da Turchia e Qatar. Il contingente italiano è a Misurata, e dall’inizio della nuova guerra di Libia, il 4 aprile scorso, la città è stata più volte attaccata dall’aviazione del generale Haftar.
In Libia, come in Iraq e in Afghanistan, non operano solo reparti ordinari, un peso crescente ce l’hanno le forze speciali.I soldati feriti nell’esplosione in Iraq fanno parte della Task Force 44, gemella della Task Force 45 attiva in Iraq, unità speciali formata da incursori della Marina e dell’Esercito, e da alcuni reparti dei carabinieri, che hanno compiti di “ mentoring and training”, affiancano e addestrano le forze speciali locali: formalmente non sono lì per combattere, ma per il ruolo che svolgono è facile che vengano coinvolti in combattimenti.
«Il loro impiego è secretato», spiega Gaiani, non si sa quante forze speciali italiane operino nel mondo e con quali regole di ingaggio. Hanno uno status diverso dai reparti normali, ambiguo, dipendono direttamente da Palazzo Chigi. «Rispondono alla catena di comando nazionale ma vengono assegnati al comando della coalizione internazionale in questo caso quello di base a Baghdad».
Negli ultimi anni, il peso delle forze speciali nei teatri di guerra di tutto il mondo è cresciuto, non tanto numericamente dal punto di vista strategico: i militari che appartengono a questi corpi sono gli unici ad avere il polso di quello che succede sulla prima linea.