6 novembre 2019
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Biografia di Luigi «Gigi» Riva
Luigi «Gigi» Riva, nato a Leggiuno, in provincia di Varese, il 7 novembre 1944 (75 anni). Calciatore • «Rombo di Tuono» (Gianni Brera) • «Re Brenno» (idem) • Dopo gli esordi – in serie C, con il Legnano – ha giocato sempre e soltanto con il Cagliari, rifiutando ogni offerta dalle altre squadre • «Gigirriva» • «Riva è il Braveheart che la fece nazione. Il Cuore Impavido della gente sarda» (Antonio D’Orrico, La Lettura, 29/3/2015) • Con lui, nel 1970, il Cagliari ha vinto il suo unico scudetto • Attaccante, fu tre volte capocannoniere in serie A (1967, 1969, 1970). Quarantadue presenze e trentacinque gol con l’Italia (record imbattuto). Campione d’Europa nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Secondo, dietro Gianni Rivera, nella classifica del Pallone d’oro 1969, terzo dietro Gerd Müller e Bobby Moore nel 1970 • Già presidente del Cagliari per una stagione (1986-1987), è stato team manager della nazionale italiana di calcio dal 1990 al 2013 • «Fermarlo, quando scattava dalla sinistra e convergeva verso il centro, era quasi impossibile» (Alberto Cerruti, SportWeek, 30/9/2017) • «Burgnich mi disse che quando Riva scendeva verso l’area avversaria, assomigliava alla migrazione di un popolo. Ti sembrava di sentire il rumore dei carri e la polvere alzarsi tutt’intorno […] Un giocatore, in Italia, non è mai stato tanto, non ha mai avuto questo valore» (Mario Sconcerti, Storia del gol, 2015) • «Non tocca palla da latino, non ha neppure il destro come dovrebbe un giocatore della sua fama, e però la sua classe ha pochi, pochissimi eguali al mondo. Il suo scatto è così imperioso da riuscire travolgente. Il suo dribbling di solo sinistro è tuttavia irresistibile quando viene portato in corsa, al di sopra del ritmo normale. Il suo tiro è fortissimo, sia da fermo sia in corsa, sia a volo. I suoi stacchi sono violenti e insieme coordinati, così da consentirgli incornate straordinariamente efficaci. Riva è intelligente e tuttavia coraggioso fino alla temerarietà» (Gianni Brera, Il mestiere del calciatore, 1972) • «Non ci sentivamo soltanto la squadra di Cagliari, ma il simbolo di tutta la Sardegna […] Un giorno andai in un paesino che si chiama Seui, entrai con un amico in una casa piccolissima dove una vecchia ci offrì da bere. Sulla credenza teneva le foto dei figli e dei nipoti, e lì accanto una mia immagine. Mi strinse la mano e mi disse grazie, con un filo di voce, “grazie, Gigi, per quello che fai per noi”» (a Maurizio Crosetti).
Titoli di testa «In principio fu Gigi Riva» • «Un’altra intervista? No. Ormai cosa c’è da aggiungere? Direi sempre le stesse cose - si schermisce - lasciamo perdere» (Enrico Gaviano, RSera, 28/10/2014).
Vita Gigi comincia a giocare a calcio da bambino, in un campetto sul lago Maggiore: «Era quello dell’oratorio, a cinquanta metri da casa. Sono stato fortunato, avrei pagato io per giocare» (Elvira Serra, Corriere della Sera, 12/2/2017) • «Ugo Riva, il padre, era tornato dalla Prima guerra mondiale con una medaglia di bronzo al valore. Aveva fatto il sarto, il barbiere, poi era entrato in fonderia. Una scheggia di ferro schizzata via dalla pressa lo passa da parte a parte, come fosse in guerra. Muore il 10 febbraio del 1953. Edis, la madre, lavora in filanda e arrotonda facendo pulizie nelle case dei meno poveri» (Gianni Mura, la Repubblica, 5/11/2004) • «Quanto è mancata la figura del padre nella tua vita, Gigi? “Molto, molto. Io ancora non giocavo a calcio. Mio padre era un grande appassionato di sport, amava il ciclismo”. E mamma che diceva? Magari “non andare a giocare a pallone che ti rovini le ginocchia!”. “No, che ti rovini le scarpe e te ne devo comprare un altro paio! Pensa che io per andare a messa, e la chiesa era un po’ lontana, pigliavo un barattolo e lo lasciavo fuori. Finita la messa, tornavo a casa usando quel barattolo come se fosse un pallone. Povere scarpe...”» (Emanuele Dessi, L’Unione Sarda, 7/11/2016) • «Gigi è mandato in collegio dai preti: a Viggiù, a Varese, perfino a Milano. Scappa un sacco di volte, e ogni volta lo riportano indietro. Se avrà incubi, da adulto, riguarderanno i giorni in collegio e più tardi quelli in divisa militare, sempre obbligato a obbedire. “È il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi”» (Mura) • Muore anche la madre, e lui cresce assieme alla sorella maggiore Fausta • Quando ha sedici anni, Gigi comincia a fare sul serio: gioca prima nella squadra di Loveno Mombello, un paese vicino al suo, poi nel Legnano, in serie C, che lo integra nella rosa della prima squadra • Da ragazzo lo chiamano “furcelina”, che vuol dire “forchettina” • «Riva, quando è incominciata la sua Sardegna? “In aereo. Stavamo tornando da Roma, a metà marzo del 1963, dopo una partita vinta con la Nazionale juniores contro la Spagna, quando si avvicinò Lupi, mio allenatore del Legnano, per dirmi tre parole, non una di più: ‘Ti abbiamo venduto’. Pensai al Bologna, perché Bernardini sulla prima pagina della Gazzetta aveva detto che gli piacevo, o all’Inter che mi seguiva ed era la mia squadra del cuore. Lupi non aggiunse altro e allora gli chiesi: ‘Venduto a chi?’. Mi rispose ‘Al Cagliari’ e per me era come se fosse caduto l’aereo. Gli dissi subito che non ci sarei mai andato, a costo di rimanere fermo un anno e lui sapeva che ero testardo”. E invece? “Quando arrivai a casa, mia sorella Fausta, che mi faceva da mamma, mi invitò a riflettere e dopo qualche giorno di resistenza raggiungemmo un compromesso. Il presidente del Legnano, Caccia, un brav’uomo che non voleva perdere 37 milioni, tanti soldi allora, mi propose di andare qualche giorno a Cagliari, con la promessa di stracciare il contratto se non mi fossi trovato bene. E così in un giorno di primavera, ma non ricordo quale, andai con mia sorella e Lupi”. Come fu il primo impatto? “Partimmo la mattina da Milano con un turboelica che fece scalo a Genova e poi ad Alghero. Arrivammo a Cagliari di sera e quando vidi le luci nel golfo mi lasciai scappare: ‘Quella è l’Africa’. Lupi si arrabbiò e mi diede un calcio nel sedere. Il giorno dopo andai al campo, l’Amsicora, che non aveva un filo d’erba e pensai ‘Dove sono capitato’. Però i ragazzi mi fecero festa e l’argentino Longo, una bella persona, mi prese subito sotto la sua protezione. Rimasi qualche giorno e l’idea di passare dalla C alla B alla fine mi convinse ad accettare”» (Cerruti) • «A quell’epoca, nello sport come per i militari di leva, la Sardegna era una punizione. “Ai giocatori indisciplinati si diceva ‘ti sbatto in Sardegna!’ […] Qualche mese più tardi mi fecero alloggiare in foresteria con gli altri ragazzi del Cagliari, era come stare in collegio, ricordo il primo Natale da solo, a mille chilometri da casa. Pensavo: gioco un campionato qui, il 63-64, poi mi trasferisco al Nord”» (Crosetti) • Gigi segna 8 reti e il Cagliari passa in serie A • «Finalmente han fatto il campo in erba, all’Amsicora. E quando cadevi non ti tirava via mezzo etto di carne dalle gambe» (Dessi) • «L’inizio della nuova stagione fu più facile? “I primi mesi sono stati tristi, alle nove di sera non girava più nessuno. Stavo con gli altri scapoli, Cera, Nenè, Tomasini. Non avevo la patente e mi aggrappavo dietro al tram per andare da via Roma a casa, senza pagare. Poi presi in comproprietà una Fiat 600 con Cera e Cappellaro, andando a guidare di nascosto sulla pista dello stadio, per imparare. L’istruttore un giorno mi disse che mi avrebbe dato la patente se avessi segnato la domenica. Feci una doppietta a Verona e arrivò la patente”. Aveva amici fuori dal calcio? “Soprattutto pescatori, a cominciare da Martino. Mi voleva bene come un figlio, fu uno dei primi a invitarmi a casa sua, dove mi insegnò a mangiare il pesce con le mani, lasciando soltanto le lische”» (Cerruti) • «I compagni lo chiamavano Hud (Hud il selvaggio era un film con Paul Newman). A volte mollava tutti al tavolo del ristorante Corallo e usciva a correre in macchina sulla costa, a tutta velocità, da solo. Boninsegna diceva di aver fatto un’assicurazione sulla vita, dopo la prima uscita sull’Alfa 1600 di Gigi» (Mura) • «Capii che non me ne sarei andato quando arrivammo secondi, quando ci tolsero lo scudetto con decisioni arbitrali molto discutibili. I compagni venivano da me con discrezione e mi dicevano: “Gigi, è stato bello, ma se te ne vai finisce tutto”» (Crosetti) • Riva infatti è bravissimo. Gioca in nazionale: «È lui, nella finale bis del 1968 all’Olimpico di Roma, a firmare – naturalmente di sinistro – l’l-0 contro la Jugoslavia che spiana la strada al successo che vale l’unico Europeo vinto dall’Italia. Ed è ancora lui a segnare una doppietta contro i padroni di casa nei quarti del Mondiale messicano del 1970, ripetendosi poi con un gol nei supplementari contro la Germania Ovest, prima di arrendersi al Brasile di Pelé» (Cerruti, SportWeek) • Gigi rifiuta l’Inter, rifiuta il Milan. La Juventus gli offre un miliardo di lire, ma lui rifiuta e, per i sardi, diventa un idolo • «Nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l’isola, lo sapevamo e ci piaceva […] Stavo bene così. Ma ogni volta ne parlavo coi compagni: “Se a voi va bene, rimango”. Un giorno Martiradonna mi disse: “Rimani, così finisco di pagare la cucina”. Ai tempi, si viveva di premi-partita, gli ingaggi non erano granché, tutto quello che ci veniva in tasca lo sudavamo sul campo, non c’erano sponsor per le scarpe, gli occhiali, le tute. L’unica possibilità di guadagno extra mi arrivò dal regista Zeffirelli: 400 milioni per interpretare san Francesco in Fratello sole, sorella luna. No grazie» • «Si andava in trasferta a Milano, a Torino, e ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord. Non esisteva la Costa Smeralda, non c’era mica l’Aga Khan […] Noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Eravamo una questione d’orgoglio, di rivincita per tanta gente» (Crosetti) • «Io rispondevo alle ingiustizie a muso duro» • «La maglia bianca con i laccetti, la pubblicità della birra Ichnusa allo stadio. C’era in panchina un allenatore che chiamavano filosofo, Manlio Scopigno, un nome come un groviglio da pronunciare e anche lui era così, complesso. I continentali all’inizio sbagliavano l’accento dello stadio Amsìcora, lo chiamavano Amsicòra. “Alle undici di mattina era già pieno. Il pallone calciato forte aveva lì dentro un suono cupo, e i tifosi battevano i piedi sulle pedane di legno: come un temporale, qui che non piove mai. E non c’era latitante in Supramonte che non tenesse con sé una radiolina, non c’era pastore nel capanno che non ascoltasse Tutto il calcio minuto per minuto. Una squadra forte, compatta, orgogliosa. Un ottimo allenatore. Il mio sinistro. Il carattere di una terra. […] Io, nel giorno di riposo andavo all’interno, volevo vedere, volevo provare a capire. Mi spingevo fino a Orgosolo, erano i tempi di Mesina latitante. Seppi che il suo primo delitto avvenne perché gli avevano ammazzato una pecora […] questa gente abbandonata da Dio, fuori da un mondo che si chiamava e che si chiama Italia, senza scuole, senza lavoro, senza regole, senza futuro. Da una parte la pecora ammazzata, dall’altra gli yacht: e allora può nascere un certo risentimento» (Crosetti) • Nel 1970 il Cagliari vince l’unico scudetto della sua storia: «Quale fu il segreto? “Nessun segreto, eravamo forti, ti devo dire. Ma proprio forti. L’anno prima arrivammo secondi. L’anno dopo eravamo in testa, cinque punti di vantaggio sull’Inter» (Dessi) • «Io ero pagato anche per fare domande cretine, tipo “a chi lo dedichi?”. Accendendosi l’ennesima sigaretta […] mi guardò come se non ci fossi: “Mi sarebbe piaciuto far vivere a mia madre una vita decente. È morta quando sono partito per Cagliari. Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna, o all’Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere. Io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere”» (Mura) • Giocando per la Nazionale (nel 1967 e nel 1970) si spezza entrambe le gambe • «Hai mai più incontrato Norbert Hof, il “boia del Prater” che ti spezzò la gamba durante la partita Italia-Austria del 31 ottobre 1970? “No. Ma se me lo trovassi davanti oggi non gli direi niente. Era una punizione al limite dell’area, potevo fare gol e lui cercò di impedirmelo entrando da dietro a forbice. Mi ruppe tibia e legamenti. Mi fa ancora male quando fa freddo» (Serra) • «Terzo infortunio il primo febbraio 1976: “Correvo, avevo Bet al mio fianco. Cercai di compiere una torsione. I tacchetti mi bloccarono il piede al terreno e mi girai solo con l’anca. Avvertii il dolore acuto di quando si rompe qualcosa. Crollai a terra. Mi portarono via in barella. È finita, pensai”. Era finita» (Stefano Boldrini) • Gigi si è rotto il capolongo dell’adduttore della coscia destra. Dopo un anno riesce a tornare in campo, ma ormai, per far quadrare i conti, è il Cagliari stesso che vuole venderlo • «Riva ha formalmente dichiarato che non intende lasciarci. Naturalmente questa situazione rende ora problematico per il Cagliari portare avanti in pieno il programma stabilito per i nuovi acquisti» (il comunicato della squadra) • «La risposta non si è fatta aspettare: “Potevano risparmiarselo. Cosa volevano, che i nuovi acquisti glieli pagassi io?”» (Giulia Zonca, La Stampa, 19/10/2011) • Si ritira nel 1976. Ha 32 anni.
Pensione Per ventitré anni è stato team manager della Nazionale: con lui l’Italia ha vinto la coppa del mondo nel 2006 • «Gigi Riva l’ha vinta tanto quanto noi» (Fabio Cannavaro) • Nel 2013 lascia l’incarico: «Era diventato molto stressante per me: durante i match dovevo prendere il Lexotan per calmarmi» • Oggi non va più nemmeno allo stadio: «Ascolto il risultato finale e il giorno dopo mi guardo la partita» • «Gli ho chiesto se avrebbe rifatto tutto, compresi i tanti no alle squadre del Nord. “Per orgoglio, quando giocavo, ho sempre difeso la mia scelta, ma qualche dubbio l’avevo. Adesso sono convinto di aver fatto bene. La Sardegna mi ha dato affetto e continua a darmene. La gente mi è vicina come se ancora andassi in campo a fare gol. E questa per me è una bella cosa, non ha prezzo”» (Mura).
Giudizi «Gigi sembrava scontroso, in realtà era solo timido» (Enrico Albertosi) • «Rimarrà per sempre nella storia del calcio» (SportWeek) • «Simbolo di un calcio romantico che ci manca» (Matteo Salvini) • «Come Di Stefano, Puskas e Meazza, incarnava l’eroe operaio e guerriero, l’uomo del quarto stato» (l’antropologo Marino Niola) • «Riva, classico dio greco in short» (Raffaella Carrà) • «Che me ne fregava a me di Riva!» (Gina Lollobrigida a Zeffirelli, che voleva convincerla ad andare allo stadio).
Affetti «Che cosa le piace della Sardegna? “Il verde delle foreste dell’Ogliastra, in cui cammini per venti minuti senza vedere il cielo”. E dei sardi che cosa le piace? “La generosità. Mi hanno sempre fatto sentire uno di loro, attorno a tavolate con salsicce e maialino. E poi abbiamo lo stesso carattere, non ci mettiamo in mostra, siamo silenziosi”» (Cerutti) • «Parliamo d’amore? “Va bene”. Il primo? “Era di Leggiuno: avevo 17 anni, lei 16”. Chi era? “Non te lo dico sennò poi scoppia un caos”. (Ride). Negli anni 60 sembravi un Bronzo di Riace. Come facevi con le spasimanti? “Ero molto riservato. La domenica sera, dopo la partita, andavo a Roma. Per un periodo ho alloggiato in albergo, avevo delle amiche...”. Poi c’è stata Gianna, la madre dei tuoi due figli, Nicola e Mauro. “Fu una cosa enorme, per quei tempi”» (Serra) • Lei infatti era sposata • «Mi misero sulla copertina di Stop e di Novella 2000. Però sul campo mi rispettavano tutti, mi hanno sempre giudicato solo come giocatore”. E perché non vi siete mai sposati, dopo il suo divorzio? “Ma te lo immagini cosa succede se due si sposano?”. No, dimmelo tu. “Non ero il tipo che stava a casa in pigiama. Quando smisi di giocare cominciarono gli impegni come team manager. Ero sempre fuori”. Vi vedete ogni tanto? “No, ma siamo stati tutti insieme a casa sua la sera di Natale. I miei figli hanno insistito, credo che prima non me lo chiedessero per timidezza” […] Hai insegnato tu ai tuoi figli a giocare a calcio? “No, ero troppo occupato e li ho mandati alla mia scuola calcio. Nicola è molto tecnico, bravo; il piccolo assomiglia a me, tutto grinta, una volta giocò anche con una distorsione al ginocchio. Il Cagliari lo voleva, ma lui non ci è voluto andare. Quando era in prima categoria si faceva chiamare Mauro e basta, senza Riva”. Ti hanno reso nonno cinque volte. “Tutte femmine! Virginia, Ilaria, Sofia, Cecilia e Gaia”» (Serra).
Banditi «Riva, cos’avrebbe fatto se non fosse diventato calciatore? “Il contrabbandiere”» (Mura) • «È vero che frequentava anche il latitante Mesina? “[…] Mesina ogni tanto mi spediva lettere con regolare francobollo, dove abitavo in via Diaz 30, con queste parole in stampatello: “Domenica vengo a vedere la partita. Vinciamo, forza Paris”, che in dialetto vuol dire “forza insieme”. Ne parlai con Cera, il capitano, che mi disse di bruciarle e ogni volta le bruciavo. Era un segreto tra noi due. Nessuno seppe mai niente, ma dietro le panchine mi è sembrato di vedere più volte Mesina in tribuna, con la barba, sempre immobile».
Grane Il 9 aprile 2013 fu iscritto nel registro degli indagati per falso ideologico, poi assolto: «Bello scherzo... Volevo andare a trovare Massimo Cellino (ex presidente del Cagliari, ndr) in carcere e Mauro Pili (parlamentare del Pdl, ndr) disse che mi ci faceva entrare lui. Poi però mi ha fatto firmare come segretario. Figuriamoci, con i questurini che mi chiedevano del calcio» (alla Serra).
Curiosità Alto un metro e ottanta, pesa settantotto chili • Fumatore accanito: ai tempi dello scudetto fumava un pacchetto di sigarette al giorno, ora compra quelle da donna: «Quelle lunghe e strette, per intenderci...» (alla Serra) • Il suo film preferito è Il dottor Zivago, gli piace molto guardare su YouTube i video di Sordi, Jannacci, De Andrè, Raffaella Carrà: «Quelli della mia generazione» • Le sue canzoni preferite sono Preghiera in gennaio e Bocca di Rosa • Vive ancora a Cagliari, in Sardegna • «Come passi le giornate? “Mi sveglio verso le 9.30, Maria Grazia mi prepara la colazione: cappuccio e brioche”. Maria Grazia? Questa è nuova. “Hanno insistito i miei figli, viene a darmi una mano dalle 9 all’una. Di mattina resto a letto a guardare i programmi sportivi. Poi mi faccio un pisolino e alle tre e mezzo esco a fare una passeggiata con i miei amici: Giuseppe Tomasini, Cesare Poli o altri conosciuti camminando. Se piove, prendo l’ombrello, ma esco lo stesso, altrimenti di notte non dormo”. Vai sempre a cena da Giacomo? “Lui è la mia chioccia. Ormai ho il mio tavolo alla Stella Marina di Montecristo. La carne non la mangio quasi più, me ne davano troppa per i muscoli. Ora solo pesce e un po’ di vino”» (Serra) • «Mangio da solo o, se capita, in compagnia» • La cantina Alba e Spanedda produce il vino Rombo di Tuono, e su ogni bottiglia c’è la sua foto • È ancora un po’ arrabbiato perché il pallone d’oro l’hanno dato a Gianni Rivera e non a lui • «Credi in Dio? “Sono credente però non vado a messa. Ho deciso di comportarmi benino e non penso che la differenza la faccia andare in chiesa. Prego sempre un Requiem per mio padre, mia madre e la mia sorellina”» (Serra) • «Era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità. Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti come nella canzone di Conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie. Ma se uno mi chiedesse di stringere Riva (Giggirrivva) in due parole, dovrei ricorrere allo spagnolo: hombre vertical» (Mura).