Corriere della Sera, 13 agosto 2019
Su "La scommessa cattolica" di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (il Mulino)
Chiara Giaccardi e Mauro Magatti sono moglie e marito. Hanno sette figli. Sono entrambi sociologi. E insegnano nella stessa università: la Cattolica a Milano. Se si dovesse giudicare il loro libro La scommessa cattolica (il Mulino) dalle prime fulminanti pagine — nelle quali non nascondono, come credenti impegnati, un po’ di scoramento — dovremmo concludere che il tramonto della Chiesa è irreversibile. Non solo per gli scandali. È un «pachiderma immobile». Si avvertono «scricchiolii allarmanti». «Difficile immaginare un futuro — sono le loro parole — se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo».
I cattolici si interrogano, non senza una crescente angoscia, su quale sia il loro ruolo in una società secolarizzata. In un mondo nel quale non c’è più trascendenza, né senso del sacro — che è il mistero della vita — e ricerca dell’invisibile, dell’aldilà. Dove i desideri contano più dei valori. E il cinismo ha soffocato la pietà. Ma sbagliano nel coltivare una tignosa nostalgia per il passato. Nell’apparire timidi di fronte all’innovazione. Quasi la temessero. Cupi e miopi nel non accettare, in forma più dialogante e aperta, l’idea che il progresso scientifico e i cambiamenti culturali e di costume abbiano messo in discussione il ruolo della famiglia, ridisegnato il perimetro tra i sessi, riscritto persino i confini della vita. Posto il problema non secondario del ruolo della donna.
«La Chiesa al maschile è anacronistica ma la risposta non è il sacerdozio femminile, è la reciprocità». Tutto ciò non per arretrare. O, peggio, arrendersi. Ma, come insegnava Michel de Certeau, per «spingere il pellegrinaggio un po’ più in là». Essere testimoni del Vangelo in modo diverso, coraggioso. «La Chiesa è un popolo che cammina, un popolo che non è, ma che si fa». E dovrebbe favorire l’esperienza della fede, non arroccarsi nel cercare di trattenere chi la fede ce l’ha o mostra o si illude di averla.
Non può fermarsi. Né mostrare di aver perso l’orientamento come un viandante stordito da un vento sconosciuto. È una rete, non una gerarchia. «Nella Chiesa di oggi si ascolta troppo poco». E non può nemmeno illudersi di recuperare il terreno perduto affidandosi a improbabili compagni di viaggio. «Spregiudicati nell’uso dei simboli religiosi», branditi come armi improprie in una battaglia identitaria lontana anni luce dall’universalità cattolica, dai principi evangelici. Il riferimento non è solo alla destra europea, Viktor Orbán in testa.
Magatti e Giaccardi sono convinti che mai come in questo momento, in cui l’uomo sembra bastare a sé stesso, lo spazio per la «buona novella» sia ampio e inesplorato. Mai come in questo momento, in cui la tecnologia insegue addirittura l’immortalità, la questione religiosa è stata così importante. Centrale. «La vita non è solo razionalità». L’io si sostituisce a Dio (Homo Deus di Yuval Noah Harari), ma è sempre più insicuro e fragile. Le reti sociali si indeboliscono. «I sintomi di una crescente fatica di vivere si registrano su vari fronti». L’io ipertecnologico soffre di solitudine. Ha meno amici, anche se connesso con tutto il mondo. Insegue la salvezza del corpo, non dell’anima. Ha una povertà spirituale che lo rende oggetto inerte e inconsapevole a disposizione di una tecnica che manipola la sua natura, ne spia ogni passo, ne determina quelli successivi.
La tesi di fondo de La scommessa cattolica è che, in una globalizzazione disordinata, ci si dimentica che «la fede cristiana è stata l’architrave dell’ordinamento politico e sociale che ha retto finora l’Occidente». La soggettività occidentale è stata costruita nei secoli nel rapporto tra fede e ragione, tra Chiesa e Stato. «Tutta la predicazione evangelica — sostengono gli autori — è diretta alla persona, alla sua libertà di scelta». La soggettività occidentale nasce dall’alleanza tra Cristianesimo e ragione. Da San Francesco a Dante. Un’alleanza oggi in crisi. «Ma l’amore — che è il nocciolo del Cristianesimo — non contrasta la ragione, la allarga». Altre visioni del nesso tra individuo e società e tra immanenza e trascendenza si stanno impossessando (si pensi solo alla Cina) degli elementi chiave della globalizzazione.
Si perde così progressivamente il senso dei valori su cui è stata costruita la democrazia, lo stesso capitalismo. Risuonano, in varie pagine del libro, le parole di Romano Guardini sull’importanza del contributo di umanità e libertà del cattolicesimo a beneficio di tutti, non solo dei credenti: la concretezza del vivere sbilanciandosi oltre sé stessi, protendendosi verso gli altri. L’uomo moderno è come il figliol prodigo della parabola. Il Padre lo aspetta, ma non si sa se ritroverà la via di casa. Il mito dell’autosufficienza è una droga sottile. Invisibile. Asintomatica.
Come può allora la Chiesa ricostruire il suo popolo e ritrovare la propria autorità perduta? Andando nelle periferie come esorta Francesco. Il pensiero del Papa è «in continuità nella discontinuità» con l’intuizione più profonda di Benedetto XVI. Ovvero la denuncia «dell’incapacità della ragione nell’illuminare il cammino individuale e collettivo». Ma le periferie esistenziali sono dappertutto. Nella miseria dello spirito più che nella povertà dei mezzi. E allora l’esperienza dei cattolici può strappare l’uomo moderno, il figliol prodigo, dalla tenaglia di due poli contrapposti. Quello della disumanità del cinismo contemporaneo. E quello della transumanità, l’ideologia della perfezione tecnologica.
La fede per Giaccardi e Magatti, è affidamento, non è un consegnarsi. Ne può esaurirsi in una esperienza individuale, privata. Peggio: fai da te. Si nutre di voci profetiche, di esempi forti. Ha bisogno soprattutto di una Chiesa che si rimetta in cammino. Che superi l’attuale immobilismo. Con esperienze nuove. Non liturgie stanche (il catechismo ridotto a una «scuolina» insipida). «Portatrice — concludono gli autori — di una dignità infinita che ci provoca e ci impegna. Questa è la via per creare una società più umana».