Mauro Bottarelli per https://it.businessinsider.com/, 4 novembre 2019
LA CADUTA DEGLI DEI GERMANICI - DEUTSCHE BANK SEMPRE PIÙ A PICCO SPAVENTA GLI AMERICANI, E ORA ANCHE I GIORNALI TEDESCHI COMINCIANO AD ATTACCARLA - FRA LUGLIO E SETTEMBRE, LA BANCA HA SEGNATO UNA PERDITA NETTA DI 942 MILIONI DI EURO, CHE SI CONFRONTA CON L’UTILE NETTO DI 130 MILIONI DELLO STESSO PERIODO DEL 2018. NEL TERZO TRIMESTRE, IL GRUPPO HA REGISTRATO RICAVI IN CALO DEL 15% A 5,3 MILIARDI -
Quando sono i tuoi nemici a mettere in circolazione voci maliziose sul tuo conto (e i tuoi conti), potrebbe trattarsi di un segnale paradossalmente positivo: forse, ti temono. E giocare sporco, per quanto sgradevole, è contemplato nelle regole del vivere quotidiano. Soprattutto in finanza. Ma quando a chiedersi, di fatto, per quale ragione i tuoi grandi sostenitori e detentori azionari non ti abbandonino al tuo destino, stante le cifre e le prospettive, sono i presunti “alleati”, allora c’è da preoccuparsi. E il fatto che dopo la pubblicazione della trimestrale, lo scorso 30 ottobre, l’attacco più duro a Deutsche Bank e il suo management sia arrivato da Die Welt, pone qualche interrogativo.
Certo, i soci forti stanno cercando di defenestrare anzitempo il presidente, avendo dato vita a un quantomeno irrituale – almeno per le teutoniche tradizioni – Cda parallelo fuori da Francoforte ma resta il fatto che il quotidiano tedesco abbia chiaramente detto – a fronte di conti simili e di un piano di ristrutturazione a dir poco monstre (non fosse altro per il controvalore della bad bank creata per ripulire il bilancio, 5 volte il market cap) – come appaia quantomeno inspiegabile la fiducia incrollabile dei grandi sponsor nell’ennesimo tentativo di raddrizzare la baracca. Questi due grafici:
mettono in prospettiva la situazione. I numeri della trimestrale sono chiari: fra luglio e settembre, Deutsche Bank ha segnato una perdita netta di 942 milioni di euro, che si confronta con l’utile netto di 130 milioni dello stesso periodo del 2018 e il consensus degli analisti sondati da Bloomberg per un rosso “limitato” a -714 milioni di euro. Nel terzo trimestre, il gruppo ha registrato ricavi in calo del 15% a 5,3 miliardi: una flessione che si spiega anche con la recente decisione strategica di ritirarsi dal trading di equities ma che poco si intona con il -13% anche su quello relativo al reddito fisso, solitamente un punto di forza della banca tedesca.
Dal canto suo, il ceo Christian Sewing ha posto l’accento sull’utile pre-tasse di 353 milioni, con le quattro attività principali della banca redditizie nel trimestre, nonché su “una crescita degli impieghi e del risparmio gestito”, sottolineando infine come l’indice patrimoniale Cet1 resti stabile al 13,4%. Il problema è uno solo, rappresentato dal secondo grafico: la reazione del mercato ai conti nel giorno della presentazione.
Ma qui subentra il giallo nel giallo, il quale pone più di una questione. Primo, subito dopo i conti JP Morgan ha tagliato il target price del titolo a 6 euro, citando il quasi certo protrarsi di revenues negative derivanti dalla cosiddetta CRU (Capital Restructuring Unit, la bad bank) anche nel quarto trimestre. Inoltre, questa schermata di Bloomberg:
mostra come 16 analisti raccomandino di vendere il titolo DB agli investitori, contro 12 posizioni ancora su hold e solo 2 che puntano su buy. Di più, stando a Die Welt, Bankhaus Lampe – la “Rolls Royce delle banche d’affari” – avrebbe terminato la propria copertura di analisi del titolo Deutsche Bank, motivando la decisione con una non meglio precisata “riallocazione di risorse”. Come dire, abbiamo cose (e titoli) più seri da far seguire agli analisti. Uno smacco di quelli che lasciano il segno, basti vedere la lista dei clienti della banca fondata nel 1852 a Minden.
E il potere evocativo che Deutsche Bank ancora esercita nella madrepatria. Eppure, venerdì 1 novembre il titolo è rimbalzato del 2% a Francoforte, dopo il tracollo di 24 ore prima. Senza che nulla cambiasse, a meno di voler attribuire poteri da affabulazione taumaturgica alle parole di rito di Christian Sewing. Di più, attraverso un’intervista concessa alla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, il vice-Ceo, Karl von Rohr, ha annunciato che l’istituto passerà a tassi negativi sui conti correnti corporate più grandi e su quelli di singoli correntisti più facoltosi, cercando di preservare la clientela retail. Pur affermando che “stiamo parlando con i nostri clienti che patiranno le conseguenze di questa decisione e si stanno dimostrando comprensivi rispetto alle ragioni della scelta”, questa mossa non pare certo uno stimolo ulteriore all’acquisto del titolo e, più in generale, a una scommessa di medio-lungo termine sul futuro dell’istituto. Almeno, in tempi di analisti che paiono mollare la presa.
Insomma, da più parti la domanda finale, ovviamente proferita sottovoce e in contesti non ufficiali, è una sola: chi sta sostenendo Deutsche Bank, forse anche fisicamente sui livelli di resistenza dell’azione? Volgarmente detto, comprando. Qualcuno sta quindi acquistando per motivi che sono “altri” rispetto alla fiducia nel piano di ristrutturazione, al mero investimento?
Deutsche Bank, pur avendo dovuto abbandonare giocoforza Wall Street, era diventata too big to fail nel trading azionario come in quello degli swap valutari, a tal punto da creare un rischio di controparte permanente con cui nessuno può permettersi di scherzare? E qui rientra in campo il dubbio che aleggia a mezz’aria sui mercati dallo scorso 17 settembre, quando la Fed tornò a operare direttamente attraverso aste repo e term per cercare di calmare le turbolenze sul mercato interbancario, di fatto prodromo del Qe vero e proprio appena partito. Sostanziato da questi due grafici:
dai quali si evince come in quell’occasione la Banca centrale Usa potrebbe dover essere rientrata in campo giocoforza per “sostenere” qualche istituto straniero particolarmente esposto e in grave difficoltà di finanziamento a breve. Ipotesi mai smentita, né confermata da alcuno alla Federal Reserve ma, stante le motivazioni addotte da Jerome Powell per far ripartire un Qe che lui stesso non vuole nemmeno venga definito tale, comunque in grado di lasciare qualche interrogativo aperto sul terreno.
Tanto più che, negli ambienti finanziari, si fa notare come Donald Trump, mai tenero con la Germania e pronto anche al braccio di ferro (ad esempio i dazi sulle auto Ue), si sia ben guardato dal colpire – persino attraverso i suoi proverbiali e alluvionali tweets – il fianco scoperto e dolorante, quasi il tallone d’Achille sistemico di Berlino. Forse, il valore sistemico di DB vale quasi tanto per Angela Merkel che per lui, non fosse altro per la questione delle sue dichiarazioni dei redditi e dei suoi conti correnti presso l’istituto tedesco che la Giustizia statunitense vorrebbe resi disponibili.
Finora, Francoforte ha resistito. Qualcuno poi vorrebbe che un tacito soccorso, anche solo a livello di moral suasion verso gli analisti, sia giunto da Bnp Paribas, istituto francese che ha concluso l’acquisizione proprio del ramo trading sugli hedge funds del colosso tedesco, operazione vista da molti come rischiosa per una banca fino ad ora cauta come quella francese, soprattutto dopo il quarto trimestre di fila di calo del ramo equity e di servizio ai fondi speculativi (-15% il dato al settembre scorso).
Certo, il deal è ormai concluso ma il passaggio dei circa 1.000 dipendenti da Deutsche Bank a Bnp Paribas richiederà fino al 2021 e un tracollo (o peggio) della casamadre non gioverebbe certo nemmeno al secondo contraente. Di sicuro, c’è soltanto che anche in patria qualcuno comincia a chiedersi, fra le righe e con perifrasi sempre più claudicanti, chi stia sostenendo Deutsche Bank e cosa le garantisca un grado di fedeltà residuale dei suoi grandi detentori. La caduta degli Dei. E non appare un segnale confortante. A meno che l’istituto non rappresenti l’elefante nella stanza di uno scontro politico tutto interno.