la Repubblica, 3 novembre 2019
Su "La misura del tempo" di Gianrico Carofiglio (Einaudi)
Torna Gianrico Carofiglio. E, con il suo La misura del tempo, è un Carofiglio “in purezza”. Nella scrittura, nei luoghi, nell’intreccio, nel protagonista. Perché ritroviamo l’avvocato Guido Guerrieri. Il melanconico, irresistibile, affilato maschio Alfa, che poi Alfa a ben vedere non è, o comunque vorrebbe fingere di non essere. Il più fortunato dei personaggi dello scrittore e, in fondo, il suo Avatar. Per lo spazio in cui si muove: la sua Bari. Per la materia che tratta: la vicenda umana dei singoli macinata dagli ingranaggi della giustizia penale (la prima vita dello scrittore). Per la curva esistenziale che Guerrieri affronta — la sopraggiunta cognizione del tempo e della sua “misura”, appunto — e che ce lo restituisce per la prima volta crepuscolare nel suo sguardo sul mondo e sulla vita. Prigioniero di una routine professionale e sentimentale in cui fa sempre più fatica a trovare un senso: «Col passare del tempo alcuni luoghi della città mi ricordano sempre piú intensamente sensazioni e fantasticherie del passato remoto. Un’epoca di stupore. Ecco, certi luoghi della città mi fanno sentire nostalgia per lo stupore. Essere storditi dalla forza di qualcosa. Mi piacerebbe tanto, se capitasse di nuovo».
Naturalmente capita. Capita di nuovo a Guerrieri di «essere stordito dalla forza di qualcosa». Alle sette e mezzo di una sera di fine inverno. Quando alla porta del suo studio bussa Lorenza, una donna che arriva dritta dritta dal suo passato. Che ha amato, prima tra tante. Che in fondo non ha mai dimenticato. E che nel passato, tuttavia, ha sepolto per sempre tutta la luminosa bellezza di un tempo. Il presente gliela restituisce irriconoscibile, «opaca» e consumata. Persino nell’odore, che è quello della nicotina che le impregna la pelle, i capelli, le unghie. E con un figlio nato 25 anni prima — «feci un rapido calcolo e conclusi che non poteva essere mio», riflette Guerrieri rivedendola per la prima volta nel suo studio — che di nome fa Iacopo, che è in galera da due anni, e che dal carcere potrebbe uscire vecchio, perché detenuto in ragione di una condanna in primo grado a 24 anni per omicidio volontario.
Iacopo ha avuto un’adolescenza complicata e una prima maturità se possibile ancora più storta. E quando il pusher da cui si rifornisce di pasticche di ecstasy da spingere in discoteca viene trovato morto dissanguato dai tre colpi di pistola che il suo carnefice gli ha piantato in corpo, Iacopo è fottuto. Perché le intercettazioni telefoniche che casualmente erano in corso sul telefono del pusher lo collocano non solo sulla scena del crimine poco prima dell’omicidio. Ma addirittura registrano una lite che Iacopo ha avuto con il pusher poco prima di incontrarlo. Di più: quando lo arrestano, sul giubotto del ragazzo ci sono tracce di antimonio e bario, quelle che inequivocabilmente lascia l’esplosione di un colpo di arma da fuoco. Si chiamano «indizi coerenti e concordanti» e hanno la meglio sull’alibi di Iacopo. «Ero in casa con mia madre quando c’è stato l’omicidio» , dice. «Era in casa con me» , conferma la madre, Lorenza. Ma non vengono creduti.
Già, «Iacopo era con me» , «so che è innocente» , ripete Lorenza a Guerrieri in quel pomeriggio di inverno in cui lo stupore torna a manifestarsi. E l’avvocato — che vorrebbe crederle, ma fa una gran fatica a farlo — si lascia trafiggere da quella scheggia di passato con cui è certo si farà del male per farla diventare il suo presente e futuro. Per tornare a «stupirsi». Lorenza vuole che nel processo di appello sia lui, Guerrieri, a ribaltare la condanna di primo grado. È un processo a cui mancano solo due settimane. È, soprattutto, un processo impossibile. Perché come Guerrieri sa, statisticamente, «tra i condannati per omicidio i colpevoli sono moltissimi», e «gli innocenti pochissimi». E Iacopo, a naso, è tra i primi.
Va da sé che Guerrieri accetti l’incarico. E va da sé che qui si debba mettere un punto nell’anticipazione dell’intreccio. Che ha in ogni caso esiti assolutamente sorprendenti ed è costruito da Carofiglio con la sapienza e la precisione che possiede solo chi conosce non solo i tempi della narrazione, ma i meccanismi del processo penale, la costruzione e confutazione della prova negativa e di quella positiva. Di quella indiziaria, di quella documentale e testimoniale. Quello che invece si può dire è come proprio nella costruzione di questo meccanismo narrativo di assoluta precisione, lo scrittore, per la prima volta — e la cosa, a giudicare dal risultato, deve averlo divertito, prima ancora che impegnato — tenti un esperimento linguistico inedito. Che capovolge il normale processo normalmente seguito in un legal thriller, dove gli atti giudiziari vengono tradotti e riformulati a beneficio della comprensione del lettore e del piacere della scrittura.
Nella Misura del tempo, infatti, le carte che fanno da fondamenta alla condanna di primo grado di Iacopo e che Guerrieri compulsa “fredde” (perché è sempre e a suo modo “freddo” un processo di appello) vengono ricostruiti con esattezza e con fedeltà riprodotti (è diverso il loro carattere tipografico della pagina) da Carofiglio nei loro stilemi, nella loro prosa legnosa epperò esatta. E non si tratta di un esercizio di stile. Perché è in quei verbali di testimonianza, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, che è la chiave per provarne a ribaltare la narrazione e la logica che hanno condannato Iacopo. Insomma, questo Guerrieri appena invecchiato e conscio della “misura del tempo”, farà venire ancora più voglia di assomigliarli. Almeno un po’.