il venerdì, 1 novembre 2019
Su "Rinascere" di Manuel Bortuzzo (Rizzoli) - con un’intervista all’autore
ROMA. C’è una grossa lettera M che si illumina di rosso sul pianoforte della casa in cui vive adesso la famiglia Bortuzzo. È costruita con due crome. "È la M di mamma" dice Manuel, ma è anche la M del nome suo e di Magnini, Filippo Magnini, il nuotatore che gliel’ha regalata. Sta lì la M e lo guarda suonare, in carrozzina, le dita che si muovono giuste sui tasti per River Flows in You di Yiruma. È una casa a due piani priva di odio e di rancore, dove si semina e si coltiva speranza, ma poiché sperare non basta: si lavora, e pure parecchio sulla terrazza che dà verso il mare di Ostia, arredata con attrezzi da palestra, per la riabilitazione. "Bisognerà tirarli presto dentro. Arriva la cattiva stagione". In un’ora e mezza resterà la sola volta in cui il mondo verrà diviso in cattivo e buono. Manuel Bortuzzo, vent’anni, triestino, frequenta altre due categorie: prima e dopo. In mezzo c’è la notte del 2 febbraio scorso, quando alla periferia di Roma gli hanno sparato scambiandolo per qualcun altro, mentre comprava le sigarette, lui che manco fuma, insieme alla fidanzata Martina. Un proiettile nella schiena. Lesione midollare completa. Manuel era una promessa del nuoto. Pensava alle Olimpiadi. Quaranta giorni dopo ha lasciato l’ospedale in carrozzina.
Sono nove mesi, domani. L’arco di una gravidanza. Manuel sta girando un film su quella notte e ha raccontato in un libro che si intitola Rinascere (Rizzoli, pp. 176, euro 17) questa sua ribellione all’idea di non camminare più. Ha riempito le giornate di passioni nuove. Il pianoforte, appunto, che prima no e dopo sì. Ha messo al collo una chiave, la bomboniera di laurea di un amico, che prima non portava e dopo sì, "perché per me ha molti significati". Ha tatuati sul braccio sinistro due putti che prima non aveva e dopo sì, "sono i miei genitori che mi proteggono. Non ne avevo mai fatti perché volevo entrare nelle forze armate e non sapevo se un tatuaggio potesse danneggiarmi: sai come son visti i tatuaggi, no? Nelle forze armate voglio entrarci da quando ero bambino, ce l’avrei fatta quest’anno coi risultati del nuoto. Invece devo prima rinascere" dice seduto sotto una frase di Paulo Coelho che papà Franco ha dipinto sulla parete: "Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sapere e di correre il rischio di vivere i propri sogni".
Rinascere, Manuel. Che verbo è?
"Significa prima di tutto imparare daccapo a camminare. Rinascere significa uscire da un dramma, significa cercare altro per non restare nell’abisso, come lo chiamo io, in cui la vita mi aveva mandato".
Le Olimpiadi dove sono finite in questa storia?
"C’è stata una prima fase in cui non volevo sentirne parlare. La fisioterapista mi tranquillizzava: non siamo qui per questo. Ora in acqua ho visto di non essere poi così male, un pensierino ce lo faccio. Solo che l’Olimpiade è una cosa seria, anche la Paralimpiade. Non è che arrivo io e faccio il fenomeno. Nella mia condizione di alti e bassi, se non trovo una certa costanza, non posso mettermi a immaginare qualcosa di così grande. Vedremo. Ho la testa che va a mille. Ho vent’anni mica trenta. Tempo ne ho. Se non sarà nel 2024, sarà oltre. La cosa più bella di tutte sarebbe rialzarsi, camminare e andare a vincere. Ragionavo con la testa di un ragazzo di 18 anni, ora ho pensieri adulti. Il primo è rimanere me stesso. Mi sono rimasti pochi amici, non voglio che non mi riconoscano".
Cosa le fa paura, adesso?
"I ragni da sempre. Quelli piccoli piccoli, bastardi. Le tarantole. Ogni tanto gli amici mi mandano un video dal quale ne esce una. Ho avuto paura di restare da solo. È andata via. Ho scoperto che la solitudine mi piace. Guardarmi dentro è quasi meglio che guardare fuori. Certo, andare a comprare le sigarette alle due di notte non lo farò mai più. Sono tornato nel posto in cui mi hanno sparato pochi giorni fa per la prima volta. Non è stata una scelta. Dovevamo girare una scena del film. Forse di giorno mi avrebbe fatto meno effetto".
Le sigarette da comprare. Lei che non fuma. Il caso. Ci pensa mai?
"Io penso che ognuno di noi ha un destino. Penso che doveva andare così. Da ragazzo ero convinto che non sarei arrivato a 18 anni. Sul serio. Chiedi a mia madre. Glielo ripetevo in continuazione. Pensavo di morire prima. Sono arrivato a 18 e mi sono messo in testa che sarebbe successo a venti. Non so da dove venissero questi pensieri. Come li vuoi chiamare, adesso? Premonizioni? Mi ha sempre fatto compagnia il pensiero che un giorno la vita mi avrebbe messo alla prova".
C’è qualcosa che le manca?
"Tante piccole cose. Quando le hai, non le vedi. Se te le tolgono sembrano enormi. Guidare, prenotare un tavolo in un ristorante seminterrato, andare a casa di qualcuno che abita in un palazzo senza ascensore. Dovremmo goderci di più quello che abbiamo. Ci pensavo già nel letto in ospedale. Ci sono tanti che nella mia condizione pensano: mi ammazzo. Capisco perché lo dicono. Se io non avessi conosciuto grazie al nuoto che cosa sono il sacrificio, l’impegno, la costanza, la fatica, forse direi la stessa cosa. Lo sport insegna questa roba qua. Io vado in palestra un paio di volte e riprendo tono muscolare. Il fisico sa cosa deve fare. Tende al recupero per conto suo. Lo avrò stressato così tanto con il nuoto che adesso quasi fa da solo. Sa cosa vuol dire stare male. Credo che sappia cosa vuol dire rinascere".
Che sentimento ha per Roma?
"Prima era la città del mio sogno. Ora è la città che mi sta aiutando a realizzarne un altro. Voglio restare qui, non ci penso proprio ad andar via. Roma mi ha tolto, Roma mi darà. La cosa strana è che le armi sono da sempre una mia passione. Un’attrazione, intendo. Da bimbo avevo pistole giocattolo, fucili, forse volevo fare il militare per quello. Se un’arma finisce tra le mani di un incompetente o di una persona che la usa a sproposito, non è colpa dell’arma. Quello che è successo a me, non dovrebbe succedere nemmeno nei film. Bisognerebbe far qualcosa per togliere le armi a certa gente. Detto questo, se domani potessi andare in un poligono a sparare, lo farei. Così forse capisco pure dell’altro".
Se lo ricorda il momento in cui si è lasciato andare?
"Qualcosa. Dallo sparo sarà passato pochissimo. Il tempo di sentire che stava succedendo un fatto assurdo e stava succedendo a me. L’ultimo volto che ho visto è stato quello di un poliziotto, segno che sono arrivati subito. Tanti dicono che nel momento in cui stai per morire, ti passa la vita davanti agli occhi. Credo di averlo avuto, quel tipo di flash. È stato breve breve. Ma davanti agli occhi mi son passate le cose che non ho fatto, li ho chiusi e sono andato in coma dicendomi che le avrei fatte".
A che punto siamo?
"Non fa testo quel che penso io. A me non va bene mai niente di quel che faccio. È il nuoto a creare questa forma della mente. Vuoi vincere il campionato italiano, ci riesci e pensi a quello europeo. Lo raggiungi e stai già pensando al mondiale. Ci arrivi e vuoi il record. Lo sport condanna a consumare la gioia in un attimo. Dietro quell’attimo c’è subito un dopo, un nuovo traguardo da aggredire, un’altra fame. Così finisce che adesso non riesco a godermi ogni piccolo progresso. Ci sono sempre più cose davanti da fare che cose alle spalle già fatte. Domani, domani, domani".
Che sogni fa quando dorme?
"Non sto sognando. Mi secca. Forse perché non dormo tantissimo. Suono la tastiera. Metto la cuffia e vado. Anche se è passata mezzanotte. Oppure guardo YouTube, serie tv, documentari. Il tempo non esiste più. Prima avevo l’ansia di non averne abbastanza, vivevo troppo in fretta, ora scopro di averne quanto ne voglio, e me lo prendo. Non c’è un’ora per andare a dormire, c’è solo un momento in cui sono stanco e si spegne tutto".
Come ha imparato a suonare il piano?
"Avevo una batteria da bambino. Sette anni, forse. Un compagno di classe ne aveva una in casa sua. Cominciai ad assillare mio padre: comprala, comprala. Iniziai a prendere lezioni private tra un allenamento in piscina e un altro. Poi i saggi, i concerti. Ora uguale con il pianoforte. C’è uno strumento giusto per ogni fase della vita. La batteria era lo sfogo ideale per un bambino iperattivo come me. Adesso non mi ci vedrei a suonarla. Voglio dire: non ho dimenticato come si fa. Se solo potessi muovere i piedi, saprei suonarla. Ma la batteria è rock. Non è che io in questo momento sia proprio un tipo rock. Al mio compleanno gli amici mi hanno regalato una tastiera. Sono andato su YouTube a cercarmi dei tutorial e ho cominciato. Esattamente come per il titolo italiano, poi l’europeo e poi il mondiale, un attimo dopo è venuta la voglia di un pianoforte. Ne abbiamo preso uno verticale, usato. Ha cent’anni. Già lo so che poi ne vorrò uno a coda. Sto imparando il Notturno numero 2 di Chopin e sto finendo un pezzo mio. Mi pare fico".
Amori?
"Eh, amori. Vanno, vengono. Nelle mie condizioni un amore può essere un problema? Non è un problema farne finire uno, non è un problema farne iniziare un altro. Non è un problema avere o no la fidanzata, se scrive o non scrive, se ci vediamo o non ci vediamo, se la spunta di WhatsApp diventa o non diventa blu. Cosa mi potrà più preoccupare? Tanti miei problemi sono spariti. Non è paradossale? Un giorno su quella parete aggiungeremo un’altra frase: ’Il duro lavoro batte il talento, se il talento non lavora duro’. Solo che questa la voglio scrivere io, con le mie mani, la voglio scrivere lassù, in alto. Lo capisci allora che devo alzarmi in piedi?".