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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

I sussidi europei all'agricoltura sono un problema

Una lunga e dettagliata inchiesta del New York Times sostiene che nei paesi orientali dell’Unione Europea i fondi comunitari per l’agricoltura vengano utilizzati per ricompensare irregolarmente alleati politici e imprenditori vicini ai governi nazionali. I casi più gravi sono quelli dell’Ungheria, reso un paese semi-autoritario dal controverso primo ministro Viktor Orbán, e della Repubblica Ceca del primo ministro liberale Andrej Babiš.

L’inchiesta è durata mesi e ha coinvolto nove paesi dell’Europa orientale, dove l’agricoltura è ancora molto diffusa e dove gli apparati statali sono maggiormente vulnerabili alla corruzione. La tesi di fondo dell’articolo, suggerita già dalle prime righe, è che i soldi che arrivano ogni anno dall’Unione Europea servano soprattutto a consolidare i rapporti di forza interni alla classe dirigente, un po’ come accadeva ai tempi dell’Unione Sovietica con i fondi statali.

In Ungheria per esempio, scrive il New York Times, «i figli degli agricoltori che avevano lavorato durante il comunismo servono dei nuovi padroni: un gruppo di oligarchi e di sostenitori politici che hanno ottenuto la terra con dei loschi accordi col governo, creando una versione moderna del sistema feudale che garantisce lavoro e finanziamenti a chi garantisce fedeltà, punendo chi non lo fa».

Per decenni i sussidi all’agricoltura hanno occupato la maggior parte del bilancio dell’Unione Europea e dei suoi antenati. Gli obiettivi erano diversi, fra cui soprattutto facilitare la transizione verso settori industriali più remunerativi – come il terziario, ormai dominante in tutti i paesi occidentali – e rendere quasi autosufficienti i paesi europei dal punto di vista agricolo e alimentare. Quando l’Unione Europea è stata allargata ai paesi dell’est, i sussidi all’agricoltura dovevano servire a sostenere le economie dei nuovi membri, spesso ancora in via di sviluppo. «Pensavano che ci avrebbero cambiati», ha detto al New York Times Jana Polakova, un agronomo ceco: «non erano preparati a occuparsi di noi».

Rispetto agli anni Ottanta i sussidi sono via via diminuiti, ma occupano ancora una parte rilevante del bilancio dell’Union Europea. Nel 2018 circa il 38 per cento del bilancio comunitario è stato destinato all’agricoltura: parliamo di 58,53 miliardi di euro, di cui 14,3 per varie misure di sviluppo e 41,4 di sussidi diretti. Questi ultimi sono quelli che ci interessano. L’Unione Europea li versa direttamente agli agricoltori, limitandosi a controllare che le loro aziende rispettino alcuni criteri di sostenibilità ambientale.

A ogni agricoltore europeo l’Unione versa ogni anno 260 euro per ettaro, cioè per ogni quadrato di terra da 100 metri per lato. Come ha ricostruito il sito EU Factcheck, la cifra aumenta di 115 euro per ettaro se l’agricoltore adotta colture e metodi particolarmente sostenibili, e di 50 euro se il proprietario ha meno di 41 anni. In totale, un agricoltore che possiede un campo di medio-piccolo da 30 ettari, se lo coltiva nel modo giusto e lo intesta a una persona che ha meno di quarant’anni, può ottenere 13mila euro all’anno di sussidi europei. Non sono pochi, se si pensa che in agricoltura il margine per fare profitto è bassissimo e che l’Unione Europea non fa alcuna domanda su come vengano spesi quei soldi.

Questa modalità genera due tipi di problemi: per prima cosa, avvantaggia decisamente i grandi proprietari terrieri, consolidando le distanze con i piccoli e i medi agricoltori (tanto che nel 2013 l’Unione Europea ha deciso di decurtare del 5 per cento i sussidi superiori ai 150mila euro). Nel 2017 circa 6,5 milioni di agricoltori europei ottennero in tutto 41 miliardi di euro di sussidi. A guardare meglio, però, la stragrande maggioranza dei fondi – l’84,7 per cento – andò alla fascia più ricca degli agricoltori, cioè un quinto del totale (in pratica, chi può già permettersi di avere almeno un campo da dieci ettari). I piccoli agricoltori possono accedere ad altri canali di finanziamenti europei, comunque meno facili da ottenere dei sussidi diretti.

Grafico citato da Eu Factcheck

La seconda stortura è che l’Unione Europea rinuncia tacitamente a controllare come sia stato ottenuto ogni singolo ettaro di terreno. È un problema soprattutto nei paesi dell’Est, che negli ultimi vent’anni hanno privatizzato molti dei loro terreni agricoli dopo che per anni erano stati proprietà dello stato, come succedeva in tutti i paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Il caso più evidente è avvenuto in Ungheria.

Orbán diventò primo ministro per la prima volta nel 1998, più di vent’anni fa. Prima che si mettesse a capo di una coalizione euroscttica di destra, il suo partito, Fidesz, era un normale partito di centrodestra, liberale ed europeista, tanto che nel 2000 si unì al Partito Popolare europeo, il principale partito europeo di centrodestra. La svolta autoritaria di Orbán e del suo partito sarebbe arrivata solo molti anni dopo, ma il New York Times fa notare che nel 2002 l’allora primo ministro «mostrò un assaggio di come sarebbe successo dopo l’annessione dell’Ungheria all’Unione Europea»:

«Poco prima di lasciare il suo incarico per la prima volta, nel 2002, Orbán vendette 12 aziende agricoli statali oggi note come “la sporca dozzina” a un gruppo di suoi alleati politici. Gli acquirenti ottennero le aziende a prezzo di saldo e la garanzia di sfruttare terre statali per 50 anni, oltre a renderli potenziali beneficiari dei sussidi europei che sarebbero iniziati due anni dopo [nel 2004 l’Ungheria entrò nell’UE, ndr]. «È un sistema criminoso in cui amici e alleati politici ricevono trattamenti di favore», spiega Gyorgy Rasko, ex ministro dell’Agricoltura fra il 1991 e il 1994: «Orbán non ha certo inventato il sistema, ma l’ha perfezionato».

Una volta tornato al potere, Orbán ha proseguito a vendere o affittare i terreni pubblici. Fra il 2011 e il 2015, secondo documenti governativi ottenuti dal New York Times, lo sfruttamento di centinaia di migliaia di ettari di terreni pubblici fu concesso a imprenditori vicini a Fidesz. Dopo il 2015 Orbán «si è mosso ancora più rapidamente», scrive il New York Times: «il governo vendette centinaia di migliaia di ettari ai suoi alleati. Tecnicamente lo fece con aste pubbliche, ma diversi agricoltori sostengono che gli fu consigliato di non partecipare, perché i vincitori erano già stati decisi».

Nella regione di Csongrad, per esempio, amici e familiari del parlamentare di Fidesz Janos Lazar hanno ottenuto circa 520 ettari. A Bacs-Kiskun, alleati e familiari di un ex partner commerciale di Lorinc Meszaros [un amico di infanzia di Orbán] hanno comprato buona parte delle terre disponibili. E a Jasz-Nagykun-Szolnok, partner commerciali e parenti di funzionari governativi sono stati fra i principali acquirenti delle terre. Molti di loro oggi affittano a caro prezzo gli stessi terreni a grosse aziende agricole che a loro volta ottengono sussidi europei.

Diversi terreni sono persino riconducibili a persone del ristretto circolo di Orbán. Quattrocento ettari di terreno a pochi chilometri da Budapest sono stati venduti al partner commerciale della moglie di Orbán. Due persone a lui vicine, Meszaros e Sandor Csanyi, sono i proprietari delle aziende che negli ultimi anni hanno ricevuto più sussidi europei in assoluto, secondo un’analisti del New York Times. Nel 2018 le loro aziende hanno ottenuto in totale 28 milioni di euro di sussidi su un totale versato in Ungheria di 1,8 miliardi di euro (più dell’1 per cento del PIL nazionale; l’Italia ha ottenuto 5,8 miliardi di fondi, cioè lo 0,0002 per cento del PIL).

Mappa creata dal New York Times

Orbán non è l’unico capo di governo implicato in traffici del genere. Per anni il primo ministro ceco Andrej Babiš, uno dei principali alleati europei del presidente francese Emmanuel Macron, è stato sotto indagine perché le aziende agricole di cui era a capo prima di diventare primo ministro ha ottenuto decine di milioni di sussidi europei, circa 200 dal 2014 alla fine del 2018. Nonostante le principali società di Babis erano state consegnate a fondi fiduciari, un’inchiesta di Reuters scoprì che Babiš continuava a ricevere introiti dalle loro attività. La Commissione Europea aprì un’inchiesta e gli affari loschi di Babiš generarono diverse manifestazioni di piazza, ma a settembre la procura ceca che indagava su di lui ha deciso di ritirare le accuse contro il primo ministro, dicendo semplicemente di «aver cambiato opinione dal punto di vista legale».

La situazione è grave anche in altri paesi, anche se meno raccontata. In Bulgaria l’Accademia delle Scienze di Sofia nel 2016 scoprì che fra il 2007 e il 2013 il 75 per cento dei sussidi diretti versati dall’Unione Europea agli agricoltori bulgari in realtà era finita nelle mani di 100 società. Negli scorsi mesi, ricorda il New York Times, «le forze dell’ordine bulgare hanno compiuto una serie di inchieste che hanno svelato loschi accordi fra funzionari del governo e imprenditori agricoli: uno dei principali produttori di farina è stato incriminato per una truffa riguardo ai sussidi europei ed è in attesa di processo».

In Slovacchia, soprattutto nelle regioni orientali del paese, il procuratore generale Jaromir Ciznar ha ammesso l’esistenza di una «mafia dell’agricoltura» che secondo una sintesi di Deutsche Welle «permette a politici locali e a imprenditori, aiutati da funzionari corrotti, di sottrarre terra agli agricoltori con l’obiettivo di ottenere i sussidi europei diretti». Il giovane giornalista slovacco Jan Kuciak, ucciso nel febbraio del 2018, si occupava proprio di truffe relative ai sussidi europei e stava lavorando a un’inchiesta sulle infiltrazioni della mafia italiana nel settore agricolo slovacco.

L’Unione Europea non ha ancora commentato l’inchiesta del New York Times, ma in passato ha sempre reagito a notizie di questo tipo difendendo le proprie politiche. In passato, un report interno della Commissione Europea pubblicato nel 2015 suggeriva alcune modifiche alle modalità di distribuzione dei sussidi all’agricoltura, ma venne sostanzialmente accantonato. Il New York Times ha scritto che i portavoce dell’Unione Europea sostengono di avere a disposizione un database che contiene dati e informazioni sulle società che ricevono sussidi agricoli, ma si sono rifiutati di passare informazioni al New York Times citando difficoltà nell’estrarre i dati dall’archivio.