Il Messaggero, 4 novembre 2019
«Costruisco androidi per capire gli umani»
«Considero i miei androidi una piattaforma di ricerca. Un prototipo continuo per capire le possibilità e i limiti della tecnologia, ma soprattutto per scoprire di più sull’essere umano».
Kohei Ogawa risponde alla video chiamata dal suo studio dell’Università di Nagoya, nel centro del Giappone, 9700 km e 8 ore di fuso di distanza, e inizia subito con raccontare la sua missione. «Faccio questo lavoro da più di dieci anni, e ora verrò in Italia a spiegare l’ampio significato delle mie ricerche».
Il suo curriculum dice ingegnere, ma lei parla come un antropologo. Cos’è allora?
«Sono un ingegnere, certo. Costruisco androidi. Però gli ingegneri non hanno mai la possibilità di chiedersi cosa ci rende umani, e invece provare a trovare, o solo sfiorare, queste risposte, è l’unica cosa che conta».
Perché proprio gli androidi, che cosa sono?
«L’androide è una sotto-categoria del robot molto precisa. Il robot è qualsiasi macchina programmata per svolgere delle azioni. All’interno contiene un’altra categoria, quella dei robot umanoidi, come ad esempio Pepper, il robot bianco molto diffuso anche in Europa. All’interno di questa sotto-categoria ce ne è una ancora più piccola: quella degli androidi, che cercano di assomigliare in tutto per tutto agli essere umani».
A guardarne uno, si intuisce che l’androide sia più difficile da creare, e molto costoso. Perché tutta questa fatica?
«L’androide non è necessario, proprio perché inutilmente costoso. La stessa azione la può compiere un robot qualsiasi. Ma continuiamo a svilupparli perché l’apparenza umana rende l’approccio alla macchina totalmente diverso. Quando hai di fronte un androide sai che è un robot, ma provi qualcosa, senti delle emozioni. Ti riconosci, ti fidi di più».
Eppure c’è un famoso studio, quello dell’uncanny valley, la valle perturbante, che dimostra come più un robot è antropomorfo più ci dà fastidio, perché crea in noi repulsione e inquietudine.
«È ancora così. Lo studio dell’uncanny valley ha generato un grafico che mette in relazione rassomiglianza del robot e familiarità per l’essere umano, e al crescere della rassomiglianza la linea sale, ma all’improvviso sprofonda. Ma la linea dopo risale di nuovo, e noi stiamo puntando lì, a risalire la valle perturbante».
Quali sono gli aspetti esteriori più difficili da replicare?
«I movimenti. Per replicare i muscoli facciali ci vorrebbe una testa grande sei-sette volte tanto. Noi stiamo usando dei meccanismi pneumatici, per evitare il rumore tipo da robot, ma significa che il nostro androide deve sempre girare con un compressore vicino».
E gli occhi? Non sono lo specchio dell’anima?
«In realtà con gli occhi è più facile. Gli occhi umani hanno tante funzioni, e si muovono per diversi motivi. Di recente ho concluso un esperimento: ho fatto dialogare due persone tracciando il movimento dei loro occhi, ho replicato il movimento con gli occhi dell’androide e, facendo osservare quelli umani e quelli del robot nessuno ha notato differenze».
Come si fa, invece, a replicare le emozioni umane?
«Un androide non conosce il significato dell’amore. E io per primo non saprei definire le tantissime emozioni umane, figurarsi programmarle. Però credo che esistano delle emozioni interne e delle emozioni sociali, che si sviluppano nella comunicazione. Se qualcuno ci dice sembri felice, noi non lo eravamo ma potremmo diventarlo, oppure offenderci. Con questo principio sto programmando i miei androidi: registrano le emozioni su due piani».
Gli androidi ci ruberanno il lavoro?
«Ogni tecnologia efficace ha portato alla scomparsa di certi lavori e ridefinito il pianeta. Ma ogni volta genera più benessere e più tempo libero, così da concentrarci su cose più umane, come l’arte. In futuro conviveremo pacificamente con gli androidi, in casa e all’esterno e ci chiederemo: qual è un lavoro dove il corpo umano è davvero necessario?».
In Giappone robot e androidi sono già molto utilizzati. È una questione di maggiore fiducia?
«In generale sì, noi accettiamo tutto e poi vediamo come va. C’è poi un altro aspetto, di dignità umana. Penso agli anziani, che preferiscono essere assistiti da macchine piuttosto che da umani, perché non vogliono mostrarsi e far pesare le loro debolezze sugli altri».
Ci faranno del male o valgono le tre leggi della robotica di Isaac Asimov, secondo cui un robot non può attaccarci?
«Gli androidi ci spaventano perché assomigliano così tanto all’essere umano, ed è l’essere umano a farci paura. Ma è più probabile, seppur meno romanzesco, che ci faccia del male un frigo robot. O un’auto che si guida da sola».
E, invece, ci innamoreremo degli androidi?
«Assolutamente sì. Ci saranno, anzi ci sono già, androidi pensati per il sesso. Nasceranno tantissimi problemi, è vero, però è una realtà».
Perché ci piacciano devono assomigliare a qualcuno in particolare o devono essere un ritratto ideale e personalizzato?
«Secondo me devono essere il più neutrali possibile. Perché la nostra immaginazione tende a proiettare aspetti positivi quando ha margine per farlo».
Uno dei suoi ultimi esperimenti è quello di Alter3: un robot che dirige un’orchestra. Tutta scena o vera rivoluzione?
«Alter3 è un progetto molto complesso, su cui hanno lavorato tante persone. Abbiamo combinato le ricerche sull’intelligenza artificiale di Takashi Ikegami con i nostri androidi. Così Alter3 è un androide veramente vivo, che impara da solo, si muove e interagisce fino al punto di coordinare i propri gesti con quelli di un’orchestra. È bellissimo: una creazione ingegneristica che è diventata un’opera d’arte».
Lavoro, amore, arte: gli androidi ci sono. Quali sono le sfide future?
«Mi sto focalizzando su due aspetti: la coscienza dell’androide da una parte e l’integrazione dell’androide con altri media. In questi anni ho lavorato a un Buddha androide, che attorno a se ha proiettate immagini sacre, in un contesto all’apparenza molto religioso, per capire come ciò che ci circonda influenza l’efficacia di un messaggio. Se un androide riesce a trasmettere messaggi religiosi, a muovere le conscienze, allora il futuro è qui».