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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

Biografia di Franco Bontadini

Franco Bontadini... Dice niente? Beh, questa è la storia della sua appassionante esistenza. Alle 8 di quel mattino del 27 gennaio del’43, la Luisa è puntuale come il bimotore Armstrong Whitworth 38 Whitley della Raf che ogni notte sgancia su Milano. A caso, una volta in Paolo Sarpi, un’altra in Loreto, per ora i veri obiettivi sono altri, l’Alfa Romeo, la Bianchi, le officine Borletti, la Magneti Marelli, la Caproni, la Pirelli, la Breda, l’Isotta Fraschini, le acciaierie Falk. Lo studio medico in Sant’Andrea al momento è ancora in piedi e lì non c’è molto da fare, il dottore è scrupoloso e ordinato, la Luisa fa la polvere, da una scopata, apre la finestra, alle nove è giù in strada. Quella mattina infila la chiave ma non gira, prova nuovamente, niente, non entra, boh, il dottore avrà fatto tardi e si è addormentato dentro con la chiave nella toppa, suona, bussa, niente. Magari quella vecchia serratura sì è rotta definitivamente. Il dottore arriverà e sistemerà tutto come al solito. Si siede sulle scale, poi ci ripensa, torna giù, la guardiola è deserta, sarà suonata la sirena dell’allarme, quella leggera e lei non l’ha sentita, quindici minuti scarsi per raggiungere il rifugio poi suona quella più potente.
A inizio secolo scorso i Bontadini a Milano sono una famiglia nota, brava gente, mamma Giovanna è una sarta con le mani d’oro, il papà Giuseppe è usciere alla Cariplo, cinque figli, il più scapestrato è Franco, gli piace andare in montagna, scia sul Cervino e fa le scalate, ma non è questo, il fatto è che pratica uno strano sport, gioca al pallone e dicono anche che non sia niente male. Tira calci nell’Ausonia football club in prima categoria, ha sedici anni, fa l’attaccante e segna. Il 14 novembre del 1909 gioca contro il Milan e il Milan lo prende subito, neanche una stagione e passa all’Inter, l’anno dopo è in Nazionale a 19 anni e l’Italia è iscritta al torneo di football dei Giochi di Stoccolma. La Federazione quasi se n’era dimenticata, all’ultimo momento il presidente Alfonso Ferrero Ventimiglia va da Vittorio Pozzo: «Andare. Bisogna andare, altrimenti nasce un uragano. Lei se ne intende, parla le lingue, prenda il comando, faccia quello che può». Tutto improvvisato, i convocati raggiungono Milano alla spicciolata, treno per la Germania e poi piroscafo per Stoccolma dove alloggiano in una scuola, pranzo e cena nell’unico ristorante che cucina all’italiana. Pozzo si porta Bontadini e, fantastico, è il calciatore che segna il primo gol della nostra nazionale in una partita non amichevole, 29 giugno 1912 contro la Finlandia, proprio lui, all’esordio, lo scapestrato di famiglia che ogni volta torna a casa con una caviglia gonfia e un occhio nero, quando va bene. A quei tempi durante un incontro di calcio può succedere di tutto, e poi ancora conta zero, il Corriere mette due o tre righe a piè di pagina, La Nazione dà i risultati delle partite tre o quattro giorni dopo.
Per Franco non c’è gloria, eppure è stato il miglior giocatore di quella spedizione in Svezia alla quale segna anche il gol dell’ 1-0, prima vittoria azzurra all’estero. Gioca interno destro, ha talento ed è furbo quanto basta per scansare le scarpe bullonate dei guardiani che lo rincorrono per abbatterlo, nel primo anno all’Inter segna 14 reti in 18 partite. Ma è strano. Ogni tanto non si presenta all’allenamento, sparisce per un paio di giorni e tutti lo cercano. Virgilio Fossati, centrocampista, capitano e allenatore, chiude un occhio perché poi gli fa vincere le partite, ma un giorno lo prende in disparte e gli chiede spiegazioni. Non risolve la questione, allora chiama un amico fidato: «Stagli dietro, non perderlo di vista, è ancora un ragazzino, ho il timore che frequenti brutte compagnie. Poi vieni a rapporto». L’amico torna e fa: «Quello va a Pavia quasi tutti i giorni». A fare? Incalza Fossati e lui: «Va all’università, vuole diventare un dottore». A Milano non esiste una facoltà di medicina, non ci sono alternative.
Cinque figli e papà Giuseppe li ha fatti studiare, tutti laureati, Virgilio è dirigente alle Case popolari, Ernesto è ingegnere, Cesare fa l’avvocato alla Cariplo. E Gustavo è un filosofo, diventerà un esponente di spicco del movimento neotomista vicino alla dottrina di San Tommaso, maestro e punto di riferimento di intere generazioni. Franco è il terzogenito, gioca al football e si laurea. 
Il 28 giugno del’14 viene assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, scoppia la Grande Guerra, il calcio si ferma, Franco vuole partire, Virgilio Fossati e gli altri sono già al fronte, loro non sono laureati, andranno in prima linea e ci vuole andare anche lui da soldato semplice, quindi non deve farsi scoprire. Omette il suo status di medico, forse addirittura dichiara generalità diverse, vuole andare in trincea, ha un senso della Patria supremo, irrefrenabile e si arruola nel Settimo reggimento alpini Val Cismon. Ma qualcuno lo riconosce, viene svelata la sua vera identità, tradito dalla sua laurea in medicina è punito e degradato a sottotenente.
Terminata la guerra torna a casa sano e salvo, quasi se ne fa una colpa. Ha 25 anni, molti suoi compagni non ci sono più, chiede notizie, Fossati è caduto a Monfalcone nel dicembre del 1916, come il barelliere Giovanni Zini a cui verrà intitolato lo stadio di Cremona, così come Genova all’imponente Luigi Ferraris, volontario caduto in una missione in Val Posina. Quando sente che anche il padovano Silvio Appiani, come lui laureato in medicina, volontario dopo aver rifiutato di aggregarsi al Corpo della Sanità Militare per poter combattere da fante, è caduto durante un bombardamento sul Carso, lo assale una tristezza infinita, chiede venia e si allontana. La lista è lunghissima, tutti uomini che ha affrontato sui campi di calcio. Lo assale una sorta di depressione che vince tornando a giocare, conquista un campionato nell’Inter nel ’20 ma ormai ha aperto uno studio medico in via Sant’Andrea, ora la sua vita è cambiata, lui è profondamente cambiato. Ha una compagna, una morosa come si dice a Milano, misteriosa, discreto non ne parla mai, chi sa qualcosa mantiene il riserbo più assoluto, forse è sposata o magari divorziata, poco importa, è il suo amore.
Quella mattina del 27 gennaio del ’43, la porta dello studio in via Sant’Andrea non si apre proprio, devono intervenire i carabinieri per abbatterla, dentro c’è Franco Bontadini in una pozza di sangue, si è sparato una rivoltellata, per amore.
In Valtournenche, sul Cervinia, c’è un rifugio che ha preso il suo nome, anche un ristorante e una chiesetta con la targa che lo ricorda. Per dieci anni consecutivi, nel giorno della sua scomparsa, sulla pagina dei necrologi del Corriere della Sera, sempre il primo in alto ad aprire le commemorazione, ce n’è una di sette righe: «Oggi cessava di battere il cuore buono e generoso di Franco Bontadini. Nella tristezza e nella preghiera di chi Gli ha voluto bene, lo ricorda con immutato affetto e con infinito rimpianto». Non firmata. Ma i parenti non hanno mai avuto dubbi, la misteriosa morosa non si è mai dimenticata di lui.