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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

Lunga intervista ad Angelo Branduardi

Quando negli ambienti discografici ascoltarono per la prima volta uno dei suoi brani più famosi, Alla fiera dell’Est, si misero a ridere: «Ma che cos’è questa storia del topolino?». Come è andata a finire lo sanno anche i muri, la storia del «topolino che mio padre comprò» ha fatto il giro del mondo. E lui, Angelo Branduardi, dopo una vita di successi e premi per canzoni e colonne sonore, è ancora in tournée. 
Eppure il «menestrello», così da sempre lo chiamano – che ha persino preso il caffè con Papa Wojtyla in Vaticano – per un po’ si è visto di meno, senza nuove incisioni. A lungo è rimasto nel suo buen retiro, in Valganna nel Varesotto. Per il resto del tempo, è lui stesso a raccontarlo, in un incontro nel suo «piccolo grande mondo» fatto di verde, legno e vasche d’acqua, una casa da cartolina svedese.
Branduardi, ci sono canzoni come «Alla fiera dell’Est» leggendarie. Ultimamente però lei è sembrato un po’ sparire...
«Ho suonato in giro come un matto. E ho aspettato un’idea forte. Sono sempre stato un artista di nicchia. Il mio pubblico continua a esserci, numeroso e fedele».
Lei come un viandante solitario.
«Con me piccolo, i miei hanno traslocato spesso, da Genova a Milano. Non sento di appartenere a una scuola legata a una città. Penso di essere da solo e di non aver avuto imitatori».
A proposito di «cammini», quali i suoi preferiti?
«Un po’ ovunque, anche nei Paesi del Nord. Tutto è iniziato nel ’77, ho fatto il primo concerto a Monaco. Ero convinto di dover chiamare mia mamma e mia sorella per fare un po’ di pubblico, invece era andato tutto esaurito in 48 ore».
Come se lo spiega?
«Come artista non classico sono stato il primo a suonare all’Arena di Verona. Dalla Germania è arrivato un charter di giornalisti. Che sono rimasti esterrefatti e da loro ho avuto una risposta pazzesca. Quando sono andato là mi conoscevano. Grande gavetta in Italia, nel Nord Europa ne ho fatta zero».
Insomma il «made in Italy» piace.
«Nei Paesi a Nord mi reputano molto italiano, in senso profondo, rinascimentale. Un italiano sofisticato che recupera periodi storici che da quelle parti piacciono molto».
L’italianità conquista, ma l’Italia?
«La vedo con l’Europa, in una crisi. Ma spero sempre che l’uomo abbia una risorsa per uscire. Nell’immediato l’Italia dovrà evitare di finire con l’Iva al 25%».
Culturalmente come andiamo?
«È un po’ un casino. Il liceo classico di oggi non è quello frequentato da mia moglie. Non parliamo poi della musica».
Paragoni con le realtà del suo passato?
«Sono nato nel Dopoguerra, c’erano grande ansia e voglia di fare. A questo proposito ricordo mio padre Umberto. Eravamo a Genova, lui lavorava in una fabbrica della birra».
A parlar di Genova ora viene in mente pure il ponte Morandi...
«Quel ponte sono andato a inaugurarlo da piccolo, come uno degli scolari selezionati nelle scuole per la cerimonia. Già il giorno dopo l’apertura dicevano che sarebbe caduto».
Che brutti ricordi.
«Poi le alluvioni: una volta l’acqua è passata per il cimitero Staglieno, sul fiume Bisagno si sono viste le bare».
A parte tutto come si stava?
«Stavamo in una zona complicata vicina al porto. Io ero trattato come un principino perché studiavo uno strumento nobile, il violino. Mia mamma, Carolina, non ha mai chiuso la porta di casa. Quando suonavo si muovevano in massa».
Ricordi di giovinezza?
«Avevo 18 anni, nel 1968 mi trovavo a Praga per l’organizzazione Servizio Civile. Una mattina mi sono svegliato per il rumore, le strade erano piene di carri armati. Ho vissuto in diretta l’invasione della Cecoslovacchia».
Il violino come è arrivato?
«Volevo studiare piano ma non avevamo spazio in casa e i soldi necessari. Così è stato scelto il violino. Papà e io siamo andati da un grande maestro, Augusto Silvestri, che mi ha mostrato uno strumento tirolese del ’600. Un colpo di fulmine». 
Un giovane oggi può trovare un’atmosfera così favorevole?
«Dal Dopoguerra in poi i padri hanno consegnato ai figli un pacchetto che aveva un gradino al di sopra del loro. Oggi si parte da un livello inferiore. È la prima volta che succede. Solo in qualche città si notano i segni del risveglio».
A quale luogo pensa?
«Milano è ripartita alla grandissima, gli amministratori sono stati bravi».
Che ricordi ha del «mondo padano»?
«I bagni nel naviglio a Cuggiono, dove sono nato. Sono tornato dopo essermi sposato e lì le mie figlie hanno avuto un’infanzia felicissima».
A Milano invece?
«Dalla Liguria siamo arrivati che avevo 16 anni. Il destino mi ha fatto incontrare della gente incredibile, come Maurizio Fabrizio, Dario Baldan Bembo, i Fratelli La Bionda e Jonny Sax per dirne solo alcuni. Abitavano tutti nel quartiere Corvetto. E qui, dalla musica classica sono passato alla cosiddetta leggera».
Dopo che cosa è successo?
«Dopo vari giri, da Roma a Ispra, sono arrivato qui dove abito, in Valganna. Ho coronato il mio sogno di abitare in una casa di questo tipo, in legno. È stata disegnata da un architetto americano, uno specialista di questo genere di abitazioni».
La casa, porto sicuro. O preferisce altro?
«Per me sicuramente è un approdo. La propria abitazione deve essere il cuore, il centro della vita. Anni fa stavo via per molto tempo, per cui quando tornavo nella mia casa vivevo la vita familiare in maniera completa, facevo da papà e anche da mamma alle mie figlie».
Musica, famiglia e stadio: o no?
«Certo che sono tifoso, da sempre interista, anche quando stavo a Genova; mio padre era juventino. Con lui avevo qualche discussione, persino sulle opere musicali, gli piaceva Verdi, io ero già un wagneriano. Da ragazzo ascoltavo il Tristano ma ancor prima gli chansonniers francesi».
Tifava Wagner ma il suo suono era medievale...
«Questo lo spiego con un paradosso: mi sono interessato al futuro antico, ovvero alle radici profonde che, come diceva lo scrittore Tolkien, non gelano mai. E danno l’impulso all’avvenire che è appunto, antico». 
Su quali autori di quell’epoca ha fatto delle ricerche?
«La maggior parte erano anonimi. Il più grande trovatore è l’inglese John Durant. Poi tutta la tradizione provenzale, la lingua d’oc e la lingua d’oïl, lingue romanze». 
Materiali antichi.
«C’è una meravigliosa raccolta di canti religiosi che segnano il cammino di Santiago che è conservata a Montserrat in Catalogna che si chiama Llibre Vermell; ci sono delle cose che nella mia collana Futuro antico, otto dischi, ho affrontato in maniera filologica».
Il nuovo disco, «Il cammino dell’anima»...
«È dedicato a un personaggio nella sua epoca all’avanguardia, Ildegarda von Bingen, la grande mistica medievale tedesca, scienziata, scrittrice e molto altro, uno dei miti delle femministe degli anni Settanta e Ottanta. L’ho incontrata perché ho saputo che c’era una donna che nell’anno Mille scriveva musica». 
Ma che persona era?
«Una donna molto potente e di grande carattere, scriveva lettere al Papa e all’imperatore. Se certe cose le avesse fatte duecento anni dopo sarebbe finita sul rogo. È stata fatta santa e dottore della Chiesa mille anni dopo da un fine teologo come Papa Ratzinger».
Com’è la sua opera appena uscita?
«Abbiamo fatto una scelta di musica e di parole portata avanti con grande rispetto. Luisa (la moglie, ndr) ha fatto un lavoro pazzesco di traduzione dal latino sassone, io ho preso quelle musiche antiche e le ho vestite in maniera più divulgativa. Ai tempi la musica era solo orizzontale, io ho aggiunto quella verticale, l’armonia».
Il disco come è stato accolto?
«Bene. La mia tournée durerà tutto l’anno prossimo. Mi piace moltissimo suonare dal vivo, spero di schiattare sul palco».
Grande entusiasmo...
«Eppure il pubblico è cambiato, in 46 anni, con diversi salti generazionali. Ora ho un pubblico trasversalissimo, fatto pure di adolescenti. Poi c’è questo: se tu vai da un bimbo e gli chiedi chi sono, non lo sa. Il topolino de Alla fiera dell’Est invece sì».
Che cosa vuol dire questo?
«Che quella canzone non mi appartiene più, ha sorpassato il suo autore, diventando parte del patrimonio popolare. Il che mi garantisce una certa dose di immortalità dopo la mia, speriamo lontana, dipartita».
Viste le tematiche che affronta, lei sembrerebbe molto spirituale... crede in Dio?
«Credo nello spirito che è quella cosa che fa di noi degli esseri umani. La fede non è un’autostrada, è un cammino dell’anima».
Quindi?
«Io cerco come i cavalieri del Santo Graal, sapendo loro forse che quel che cercavano non c’era. Un cammino che da qualche anno faccio sempre più. C’è solo un altro artista che ha fatto un percorso simile, è Franco Battiato».
Ha dedicato un’incisione pure a San Francesco...
«Mi sono venuti a trovare dei francescani, secondo loro io sarei stato l’unico in grado di musicare le fonti francescane. Ho risposto spiegando che sono un peccatore; la replica è stata che lo chiedevano a me perché Dio sceglie sempre i peggiori. Mi sono messo a ridere e ci ho lavorato un anno e mezzo».
Un «peccatore» tutto casa e famiglia.
«A me piace moltissimo la mia famiglia. Senza Luisa, le mie figlie Sarah e Maddalena, e la musica, dato il mio carattere probabilmente sarei finito male».
Quarant’anni con la stessa moglie, non è un po’ un record nel mondo dello spettacolo?
«Non mi risulta, tra i cantautori storici è capitato spesso. Del resto il matrimonio è anche un lavoro. Bisogna avere compressione, intelligenza, saper affrontare le difficoltà senza andarsene alla prima. E avere l’impressione che se ci si lascia la metà di noi se ne va».
Anche sulla politica lei ha le idee così chiare?
«Non mi sono mai voluto dichiarare a proposito. Ho le mie idee ma credo che la musica non abbia nulla a che vedere con la politica. E le ideologie è meglio lasciarle perdere. Quando si comincia a dire costruiamo l’uomo nuovo significa che quelli vecchi vengono uccisi».
Non ne fa una questione di «colore»...
«No, l’importante è che ci sia una classe politica onesta e capace di far marciare il Paese. E che abbia rapporti con l’Europa. Sono le radici, quelle del cristianesimo».
Magari le piace il verde?
«La mia musica e i testi delle mie canzoni ne parlano. Ora, anche per il clima è un gran casino. Non dimentichiamoci che i dinosauri hanno vissuto molto di più dell’essere umano. E noi potremmo estinguerci per colpa nostra». 
Pensa che la società se ne occupi abbastanza?
«Mi dà fastidio l’atteggiamento di Trump, il rifiuto di queste tematiche. Greta serve come simbolo, è un simbolo carino».
Le sue idee sul mondo plasmate pure dagli incontri. Quali quelli indimenticabili?
«Quello con Franco Fortini (poeta, ndr) e Paul John Buckmaster, uno dei più grandi produttori e arrangiatori. Un giorno mi disse tu hai il dono di parlare con gli uomini. Poi il regista Luigi Magni, che mi ha fatto conoscere Roma e mi ha lasciato l’amore per il cinema». 
Quante storie, il 12 febbraio compirà 70 anni: chissà che festa.
«Sarà un concerto pubblico. Non posso dire altro, top secret».
Una vita in musica, e se non fosse andata così?
«Sono stato allevato per fare musica, mi ritengo ancora in viaggio. In altro modo sarei finito a fare il barbone».