il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2019
Campo di Samos, l’inferno i migranti
È una notte d’autunno sull’isola greca di Samos, ai confini dell’Europa. Luci gialle e arancioni illuminano i container ammassati sul fianco del monte che domina la città di Vathy. Delle voci risuonano tra i cipressi e gli ulivi dove sono sparpagliate centinaia di tende. Sono le voci di afghani e siriani, soprattutto, ma anche di iracheni, camerunesi, congolesi, ghanesi. La metà sono donne e bambini. 6 mila persone vivono in quei container previsti per 648 persone e nella “giungla” circostante, come la chiamano qui. Il campo è diventato una città nella città. Il numero di migranti sfiora quello degli abitanti. “Samos è un piccolo paradiso con un angolo d’inferno nel centro”, dice Mohammed, un afghano che vive qui da un anno. Gli esiliati sono arrivati illegalmente con i gommoni dalla Turchia, distante solo due chilometri. Vathy, già sovraffollata, continua a ricevere nuovi arrivati, sbarcati con tanti sogni d’Europa in testa ma sempre più disillusi col passare dei mesi. Nato come luogo di transito, il campo è diventato nel 2016 un hotspot, uno dei cinque centri di identificazione delle isole Egee gestiti da Grecia e Ue. I migranti, invisibili nel resto dell’isola, restano qui per tutto il periodo della loro domanda di asilo, in mancanza di alloggi sul continente, dove il dispositivo crolla sotto 73 mila richieste d’asilo.
I migranti restano in attesa del loro primo colloquio, a volte fissato per il 2022, bloccati su questo lembo di terra di 35 mila abitanti. Naveed Majedi, afghano di 27 anni, magro,dice di sentirsi “in trappola” da sette mesi: “Siamo bloccati. Non posso tornare in Afghanistan con i rimpatri volontari perché è troppo pericoloso”, spiega Naveed, che a Kabul lavorava come traduttore per la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza. Nel campo non c’è più posto e il prezzo degli “alloggi” si deve negoziare. Per la sua tenda Naveed ha pagato 150 euro in nero a un migrante in partenza. Il giovane denuncia “i rifiuti, gli scarsi servizi igienici e il poco cibo”. Scatta foto che invia ai familiari per mostrare le condizioni “disumane” in cui vive. Anche l’Ong Medici senza frontiere ha lanciato l’allarme: “Non c’erano mai state così tante persone nel campo dal 2016. Questo luogo è pericoloso per la salute fisica e mentale dei migranti”. C’è solo una via d’uscita: ottenere alloggio e trasferimento in traghetto ad Atene, possibile però solo se si possiede una “carta aperta”, che viene concessa in funzione della disponibilità, della nazionalità del migrante e altro. Ma dall’arrivo al potere, lo scorso luglio, del premier di destra Kyriakos Mitsotakis, queste carte vengono date col contagocce. “Alcune nazionalità, come i siriani, sono prioritarie”, osserva Naveed, che sogna di salire su un traghetto. Le tensioni tra comunità scandiscono la vita del campo. “Ci sono risse continue, soprattutto tra afghani e siriani – riconosce Naveed -. Gli africani non si immischiano. Noi afghani abbiamo una brutta reputazione perché alcuni di noi sono aggressivi”. L’ultima rissa finita nel sangue ha traumatizzato gli abitanti dell’isola. Da tempo si sapeva che il campo era un polveriera e il 14 ottobre è esplosa. Quella sera, due giovani migranti sono stati accoltellati nel centro della città. Si è parlato di una vendetta per una precedente rissa tra siriani e afghani scoppiata per motivi sconosciuti. Per rappresaglia, un incendio doloso ha devastato 700 “alloggi” del campo. È stato dichiarato lo stato d’emergenza e le scuole sono state chiuse. Centinaia di migranti hanno abbandonato il campo. Abdul Fatah, afghano di 43 anni, sua moglie di 34 e i loro sette figli “per paura” hanno lasciato i container dove vivevano e sono andati ad accamparsi sul lungomare. Le proteste dei migranti si sono moltiplicate davanti agli uffici dell’asilo. Sull’isola sono arrivati poliziotti in rinforzo e sono stati programmati nuovi trasferimenti ad Atene.
Durante il giorno i migranti vagano nel piccolo centro della città. “Non tutti ci accettano. Una sera volevo cenare in una taverna, ma mi è stato risposto che al massimo potevo ordinare e portare via”, racconta Naveed, seduto nella piazza con la famosa statua del Leone di Samos. Una famiglia di rifugiati esce da un supermercato carica di buste: hanno appena speso i 90 euro rimessi ogni mese dall’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr). Nel negozio si mescolano diverse lingue, greco, dari, arabo e francese. Un gruppo di migranti si sta incamminando sulle colline per raggiungere l’ospedale di Samos. Ogni giorno, tra 100 e 150 persone sperano di incontrare un medico che possa riconoscere loro lo “status di vulnerabilità”, con il quale è più semplice ottenere la carta aperta. In teoria la “vulnerabilità” è riconosciuta alle donne incinte e ai malati gravi o con problemi psichici. Ma c’è chi simula delle patologie per poter partire. “Un giorno, diverse persone sono state trasferite per la tubercolosi e nei giorni seguenti in molti si sono presentati in ospedale simulando i sintomi della malattia – dice il dottore Fabio Giardina – È faticoso per i medici che lavorano sotto stress e perdono tempo e denaro a spese dei malati reali. Con la nuova legge in arrivo, più severa, il sistema dovrebbe cambiare”.
In nove mesi la struttura, che conta 123 posti letto, ha registrato 12 mila visite ambulatoriali per i rifugiati. Le patologie più gravi: tubercolosi e Hiv. L’unico psichiatra ha lasciato l’ospedale mesi fa. Da un anno e mezzo due posti di pediatri sono vacanti. Nel corridoio, tra i lamenti delle persone, Samuel Kwabena Opoku, un ghanese di 42 anni, è venuto con la moglie Alice, incinta di otto mesi. Ci è voluto molto per ottenere l’appuntamento in ospedale, che deve essere concordato con il medico del campo. “Noi neri passiamo sempre in secondo piano – denuncia Opoku – Una poliziotta mi ha detto: voi africani (spesso in arrivo dall’ovest del continente, ndr), siete migranti economici, non dovete stare qui”. Samuel sostiene di essere minacciato di morte in Ghana: “Dovevo prendere il posto di mio padre, un capo tribale. Per questo però avrei dovuto sacrificare il primo dei miei figli e l’altra moglie. E io ho rifiutato di commettere questo crimine rituale”. Il suo avvocato francese ha lanciato una procedura d’urgenza che è stata accettata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Arrivati a Samos ad agosto, Samuel e Alice sono riusciti a vedere il ginecologo solo a ottobre. L’ospedale ha registrato 213 nascite sull’isola nel 2019, di cui 88 tra i migranti. Alcune Ong internazionali collaborano con l’ospedale, aiutano nelle traduzioni, ma sono solo 15 sull’isola. “Abbiamo pochi contatti con le autorità locali, che comunicano poco, e siamo costantemente sotto controllo – si lamenta Domitille Nicolet, di Avvocati senza Frontiere – Una situazione che interessa poco i media”. Chryssa Solomonidou, che vive sull’isola dal 1986 e insegna il greco ai migranti, è in contatto con le associazione umanitarie. “I migranti e le Ong hanno ringiovanito la città – afferma – I giovani greci se ne sono andati per la crisi”. Chryssa ha assistito impotente alla rapida crescita del risentimento tra le persone: “Girano voci di violenze, di malattie. Un giorno ho visto un commerciante che vendeva magliette scontate a 20 euro. Ha mentito a tre uomini di colore, dicendo che stava chiudendo. Non voleva che le provassero per paura dei microbi”. Chryssa ricorda di un’insegnante “denunciata dai genitori di alcuni alunni perché non volevano che lei accogliesse in classe i migranti”. La professoressa è finita in tribunale per aver chiesto ai bambini di ignorare la “xenofobia” dei genitori. “Non bisogna prendersela con i migranti – continua Chryssa -, ma con le autorità e con l’Europa, che ci ha dimenticato”.
Giorgos Stantzos, il nuovo sindaco di Vathy, è della stessa opinione: “L’Ue ci deve aiutare. Bisogna riaprire le frontiere europee come nel 2015 e distribuire i rifugiati”. Ma l’esecutivo di Mitsotakis prepara una nuova legge sull’immigrazione e ha annunciato misure più severe, tra cui l’inasprimento della legge sull’asilo e il rinvio di 10 mila migranti in Turchia. I termini del controverso accordo firmato nel marzo 2016 tra Ankara e l’Ue nei fatti non vengono applicati. Mentre i migranti continuano ad arrivare in Grecia, la Turchia sostiene che l’Europa ha versato solo tre dei sei miliardi di euro previsti in cambio della limitazione delle partenze illegali dalle sue coste. Il 24 ottobre, il presidente turco Erdogan ha di nuovo minacciato “di inviare 3,6 milioni di migranti in Europa” se questa avesse osato “presentare l’operazione in Siria (l’offensiva turca contro i curdi, ndr) come un’invasione”. Questo ricatto risuona più che altrove qui a Samos. “Il momento è critico. Le famiglie di rifiugiati non creano problemi. A crearne è chi arriva da soli”, dicono dal municipio. Il comune di Vathy “non interviene nel campo, non fornisce gli alloggi ai rifugiati, neanche dopo gli incendi, non è compito nostro”, aggiunge. Per Stantzos l’emergenza di Samos viene oscurata dalla più importante, e legittima, mediatizzazione riservata all’isola di Lesbo, il cui campo stracolmo conta 13 mila migranti. Durante una manifestazione, il 21 ottobre scorso, Stantzos ha parlato davanti a dei preti ortodossi. “Siamo troppo numerosi qui a Samos. La salute pubblica è in pericolo”, ha ripetuto, mentre migliaia di persone lo applaudivano. Il comune sta ancora aspettando la “soluzione d’urgenza” promessa dallo Stato greco e dall’Ue. Presto un nuovo campo dovrebbe nascere lontano dalle città e dagli sguardi. Un campo gigante con 300 container e una capacità di 1.000-1.500 posti, protetto da recinzioni della Nato e “attrezzato con medici, supermercati, elettricità, ecc.”, riferisce una fonte governativa. I container devono essere consegnati entro metà novembre e il campo dovrebbe diventare operativo entro l’anno. “Il governo ci ha assicurato che, per allegerire Samos, saranno organizzati trasferimenti di migranti verso la terraferma ogni settimana entro fine novembre”, ha detto il sindaco Stantzos.
Sulle banchine del porto, la sera del 21 ottobre, quasi 700 afghani, siriani, camerunesi e iracheni hanno seguito sorridendo nel buio l’arrivo del traghetto dello Stato. Dopo essere imbarcati, hanno fatto scalo al porto del Pireo e da lì sono ripartiti per raggiungere gli alloggi sul continente. Circa 380 passeggeri del traghetto sono stati portati in bus nel nord della Grecia. Ma una volta a destinazione, hanno dovuto fare marcia indietro accolti dagli abitanti del posto al grido di “Chiudete le frontiere” e “Cacciate i clandestini”. Nel campo di container di Vathy, circondato da filo spinato, si può entrare solo con l’autorizzazione del governo. Si può accedere solo alla “giungla” di tende che lo circonda. Ad ottobre (prima il 10 poi il 20 e 23) abbiamo fatto richiesta alle autorità greche, al responsabile dell’hotspot di Samos e all’Ufficio europeo di sostegno all’asilo. Abbiamo sempre ricevuto risposte negative.
(traduzione Luana De Micco)