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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

Biografia di Marco Lodadio raccontata da lui stesso

Ogni volta che un ginnasta italiano si appende agli anelli il pensiero corre a Jury Chechi. La benedizione/maledizione prosegue da più di vent’anni, dai Giochi di Atlanta ’96, e accompagna anche atleti saliti sul podio olimpico (Morandi, bronzo a Londra 2012). L’ultimo della serie ha la faccia pulita e le spalle di ferro di Marco Lodadio. È romano (dei Castelli), ha un argento mondiale al collo, fa il pendolare per lavorare con un allenatore che cita Alda Merini. È apparso in un docu-reality, ma a un altro reality, magari da protagonista, ha detto no. Perché vuole vincere a Tokyo, come fa capire sorseggiando un caffè nella sua Frascati.
Lodadio, si parte sempre da Chechi per voi anellisti.
«Un punto di riferimento. Quando ero piccolo vedevo lui e sognavo».
Lo ha studiato?
«Lavoro molto sull’espressione del viso, non voglio far trasparire la fatica, uno dei suoi punti di forza. Quando alzo la testa dopo la croce, voglio far capire che per me è una passeggiata, proprio come faceva lui. Ma devo chiarire subito, non vorrei diventare l’ombra di Jury.
Con tutto il rispetto, voglio rimanere Marco Lodadio, non il suo erede».
Troppo duro il confronto?
«I campioni vanno apprezzati per il periodo in cui vivono».
E lei che stagione della ginnastica sta vivendo?
«L’era in cui i social hanno cambiato tutto. Ormai niente è più nascosto, misterioso, tutto è visibile, imitabile, diventa materia di confronto. Il bacino degli avversari è diventato sterminato».
In che senso?
«Ai Mondiali al corpo libero ha vinto un filippino. Agli anelli, il mio attrezzo, un turco. Alla sbarra, un brasiliano. Per non parlare di tutti i cambi di passaporti tra ginnasti dell’ex Urss e delle migrazioni dei loro allenatori. È una ginnastica globale, in cui ogni campionato è una guerra».
Lei come ci è arrivato a queste battaglie in pedana?
«I miei genitori Massimo e Antonella sono appassionati di ginnastica che per una vita hanno insegnato, allenato, montato e smontato attrezzature in una scuola media di Frascati, la Nazario Sauro. Tanta fatica e passione, ma col tempo le attrezzature si logorano se non vengono lasciate al loro posto».
Per fare il salto se n’è dovuto andare?
«Quando avevo dieci anni hanno selezionato sette bambini dei Castelli Romani, convogliandoli verso il centro dell’Acquacetosa ad allenarsi e studiare alla scuola serale. Col passare degli anni sono rimasto l’unico a un certo livello. Ma siamo ancora fratelli, gli altri sei mi hanno inzuppato quando ci siamo rivisti per festeggiare la medaglia d’argento mondiale».
Come ha fatto a resistere mentre gli altri non reggevano?
«Sono diventato un pendolare. Soprattutto quando il mio maestro si è trasferito a Civitavecchia e io, bambino in cerca di punti di riferimento, ho cominciato a vederlo come un secondo padre».
Già, Gigi Rocchini, che cita Alda Merini su Facebook.
«Dopo aver vinto il bronzo ai Mondiali di Doha, nel 2018, ho preteso di averlo sempre accanto a me. Lui è leale, quando deve dirti qualcosa comincia a romanzare, diventa filosofo, poeta, ed alla fine accetti anche la critica. Per lavorare con lui dormo due notti a settimana a Civitavecchia».
A un certo punto è finito dentro "Ginnaste - vite parallele" su Mtv.
«Dovevo essere solo un personaggio di passaggio, nel centro tecnico di Milano. Ma pare che abbia affascinato le telecamere, e una puntata è stata dedicata a me. Lì ho capito quant’è difficile rimanere se stessi, non cadere nel tranello della fama. Il termine "facile" non esiste. A una proposta di reality ho detto no».
È vero che è un super tifoso romanista?
«Ho imparato a fare il verso del lupo prima di iniziare a parlare. Ma adesso non c’è più il mio capitano…».
Era affascinato dalle scienze, che fine ha fatto questa sua passione?
«Da piccolo volevo inventare la macchina con le ali. Ma per essere ingegnere, o ginnasta, devi dedicarti al cento per cento e non c’è spazio per altro».
Le ha dato fastidio vedere il turco Colak, che l’ha battuta ai Mondiali, fare il saluto militare per l’attacco in Siria?
«Ero ancora troppo preso dall’adrenalina della gara. Ma tutto quello che riguarda la guerra, per un frascatano come me, è un brivido che passa di generazione in generazione, attraverso i racconti degli anziani come mia nonna sul bombardamento alleato del ’43».
Tokyo si avvicina, ventiquattro anni dopo l’oro di Chechi.
«Ormai le giurie internazionali conoscono e apprezzano il mio esercizio. In vista delle Olimpiadi sto pensando a un elemento nuovo, a un dettaglio per arricchirlo. Il mio obiettivo non è Chechi. È la perfezione assoluta».