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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

Intervista a Patti Pravo

«Sul passato, mi ricordo a decenni. So guardare non dico avanti, ma solo al momento. Vedo cosa mi va e, se voglio stare tranquilla, stacco e mi faccio un viaggio da sola». 
Dove se ne va Patty Pravo, da sola? 
«Ho anche fatto la traversata atlantica in solitaria. Dalla Spagna, ho beccato gli Alisei e in due settimane ero arrivata. Ne ho parlato con Giovanni Soldini e non si capacitava di come fossi viva, perché lui va super organizzato, io ero partita terra terra». 
E come è stata la transoceanica? 
«Sono quasi crepata dalla noia: dovevo solo tenere su le vele. I viaggi da sola li ho imparati, poco più che ventenne, negli anni 70, perché, al Cairo, seduta sotto la Sfinge, sono diventata amica di un cammelliere vecchiotto. Mi ha passato una canna, mi ha insegnato i cammelli, mi ha portato nelle oasi. Da lì, ho iniziato ad andarmene per deserti da sola. A Taroudant, in Marocco, arrivo, scendo dal cammello, trovo Yves Saint Laurent e scopro che si cenava in abito da sera. Negli 80, mi sono unita ai tuareg: tre mesi per prendere il sale nell’oasi di Bilma, in Niger, e tornare». 
Non aveva paura, unica donna, fra i tuareg? 
«No. Quando arrivi fra persone diverse da te, se sei un’anima aperta, ti accolgono. Nei primi anni 90, ho fatto da sola la Via della Seta, ci ho messo nove mesi, ho attraversato due Paesi in guerra. Sono partita dalla Turchia e arrivata in Cina. A Sajnšand, in Mongolia, non avevano mai visto una bionda, mi offrirono persino una casetta. In Cina, ho cantato alla tv in pechinese e mi hanno vista un miliardo e 300 mila persone. Sono rimasta tre mesi, andavo a sentire il rock che era vietato, ma proliferava nei locali. Allora, ho convinto il nostro ambasciatore a fare una serata rock, si sono esibiti giovani bravissimi e ballava anche il ministro della Cultura cinese». 
Che libertà prova in quei viaggi? 
«È qualcosa che mi si allarga in petto, un piacere diverso che stare sul palco, ma similare: il pubblico, quando canta con te, è come un’anima sola, una botta di solitudine bella che ti arriva». 
Al Cairo, che ci faceva sola sotto la sfinge? 
«Centoventi milioni di dischi li vendi solo girando: Australia, Giappone... Cantavo e magari prendevo due settimane per me». 
In quale suo brano si riconosce di più? 
«Forse nella frase “la cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me”». 
La prima volta in cui s’è cambiata la vita? 
«Bambina, a Venezia. Mi vestivano con l’abito di velluto blu, il fiocco sul collo. Una cosa tragica. Io volevo i pantaloni. Un giorno, tagliuzzo il vestito e i capelli. Tornano i nonni e dico: io mi voglio così. Si misero a ridere». 
Deduco che non erano severi. 
«Mi hanno dato una libertà che ti obbliga a responsabilizzarti. Mi hanno cresciuta loro: mamma aveva avuto un parto difficile e s’era ritirata in campagna. Nonna ha capito la mia essenza: mi ha fatto dare lezioni di piano a tre anni, poi di danza. A 14 anni, una mattina, invece di andare a scuola, sono andata a fare l’amore. Torno a casa felice. Dico: nonna, nonno, ho fatto l’amore e mi è piaciuto molto, posso tornarci nel pomeriggio? Mi ci hanno mandata». 
Negli anni 60, lei era considerata un’icona di trasgressione, parlava di divorzio, libertà sessuale... 
«Ero io così. Neanche avevo capito che ci fosse il ’68. Viaggiavo tanto, ero ovunque. Nel ’69, andai alla Nasa dagli astronauti scesi dalla Luna e, in Russia, cantai per l’Armata Rossa». 
«La Bambola», nel ’68, passò per inno femminista. 
«Io la percepivo al contrario: la parola “bambola” mi dava fastidio. Invece, le donne amarono quel “no ragazzo no, tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più”». 
Come diventa «La ragazza del Piper»? 
«A 15 anni, finito il conservatorio, andai a Londra a imparare l’inglese. Arrivo, mi dicono che a Roma c’è un locale fighissimo. Con gli amici, parto in macchina la sera stessa. Il proprietario Alberigo Crocetta mi vede, mi chiede se so cantare come so ballare. E io, che a cantare non avevo mai pensato, dico subito sì. Sono salita sul palco, mi è piaciuto. Mi hanno detto che dovevo avere un gruppo, farmi un repertorio. Poi, Gianni Boncompagni scrisse per me il testo di Ragazzo triste e stavo già in giro a far serate». 
Era il ’66, aveva 18 anni. 
«Questa data me la ricordo perché andai a cantare a Firenze, provai una sensazione strana e dissi: torniamo indietro. La sera, venne l’alluvione. Mi è successo anche per un terremoto in Sicilia e un’alluvione in Piemonte». 
Che spiegazione si dà? 
«Senti le cose quando hai l’anima aperta». 
Renato Zero se la ricorda al Piper con due levrieri e una Rolls bianca guidata da un autista di colore. 
«Avevo preso in prestito dei costumi di Wanda Osiris in Rai: a tre anni dall’esordio, avevo già uno show in tv col mio nome. Ero ricca da schifo, infatti i soldi non li ho mai considerati e avrei fatto meglio a conservarne di più. Ma lavoravo tanto: ero abituata, venendo dal conservatorio. Ero diplomata direttore d’orchestra, perciò mi era facile comandare una band». 
Il suo primo batterista, Gordon Fagetter, sarà anche il suo primo marito. 
«Eravamo fanciulli. La mia felicità, quando ci sposammo da lui a Brighton, fu lavare l’auto con la pompa, in giardino. Ci sarebbe piaciuto un figlio, ma non puoi crescere i figli in tour e ci siamo promessi che non ne avremmo avuti». 
Quanti mariti ha avuto? Quattro o sei? 
«Il secondo era Franco Baldieri. L’unico non musicista, ma antiquario. Abbiamo passato la notte insieme, scoperto di essere anime uguali e, la mattina, ho messo la pelliccia sul pigiama e siamo andati in Campidoglio a sposarci. È durata poco. Non perché era gay, cosa che già sapevo, ma perché ho incontrato Riccardo Fogli». 
Fogli era sposato con Viola Valentino e lei passò per la Yoko Ono dei Pooh. Come andò? 
«Il loro manager gli disse di scegliere: o loro o me. Riccardo scelse me. Finì perché io dovevo lavorare e non è bello portarsi dietro uno che non lavora. Ci siamo sposati in Scozia, con rito celtico, per cui, non è con lui che divento bigama». 
E con chi? 
«Lavoravo con Vangelis all’album Tanto, entro nel suo studio e vedo un bellissimo ragazzo che suona il basso, Paul Martinez. Poi un altro, bellissimo, che suona la chitarra, Paul Jeffrey. Amarci in tre fu naturale. Abbiamo anche abitato insieme a Roma». 
Perché sposa prima Jeffrey nel ‘76 e Martinez due anni dopo? 
«Per errore. Partivo per Bali. Di notte, squilla il telefono. “Sono Paul”. Pensavo fosse Martinez e gli dico di partire con me. Invece, si presenta Jeffrey vestito di bianco, con la valigia. Però a Bali stemmo bene e ci sposammo». 
Nozze valide o no? 
«Queste no. Però sono vere quelle con Martinez. Il problema nasce quando sposo a San Francisco l’americano Jack Johnson, grande chitarrista. Dopo Pensiero stupendo, me n’ero andata a vivere lì per bisogno di normalità. Comunque, venne fuori che il matrimonio con Baldieri non era stato annullato bene. Dunque, ero bigama. Mi salvai perché scoprimmo che ero ancora sposata anche con Martinez e la trigamia non è contemplata dalla legge. In totale, fanno sei mariti, quattro veri». 
Come finì a Rebibbia, nel ‘92, per droga? 
«Ci sono stata tre giorni, rilasciata con tante scuse perché cercavano cocaina, ma io, se c’è una cosa che non ho mai preso è la coca. Il resto sì. Cominciai a casa del pittore Mario Schifano, anni 60. Aveva vasi pieni di pilloline, ci bivaccavano i Rolling Stones. Con Keith Richards, siamo ancora amici. Ero con lui quando cadde da una palma alle Fiji e i giornali scrissero che era ferito grave, ma fu solo una bottarella. Si fece un Jack Daniels e già non ci pensava più». 
Droghe ne usa ancora? 
«Non ora, con la roba che circola. Neanche la canna che Ornella Vanoni prende per dormire. Mi chiama sempre dopo mezzanotte». 
Ornella denuncia ormai solo amori platonici. E lei? 
«Neanche quelli. Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Poi, mi piacciono i giovani e la gioventù di adesso non ha fascino». 
Che cos’è il fascino? 
«Una vibrazione, un magnetismo. Cammini e la gente lo sente. Io ce l’ho. I grandi ce l’hanno. Però puoi neutralizzarla: con Mick Jagger, abbiamo girato Parigi senza che nessuno ci riconoscesse. Gli ho detto: dobbiamo solo smettere di emanare quell’energia lì». 
Quale sua canzone le è più cara? 
«Album interi, come Biafra, Radio Station, Oltre l’Eden. Un brano:  Col tempo. Per la parte pop: La Viaggiatrice – Bisanzio, Captivity, e Sogno, che scrissi per Mine vaganti di Ferzan Ozpetek». 
C’è un pezzo in cui credeva solo lei e che ha lottato per pubblicare? 
«Pazza idea. Mi dicevano che la parola con due zeta era ostica, che il brano partiva male, ma ho lottato nove mesi per fare di testa mia e fu un successo». 
Pensa mai a come vorrebbe morire? 
«Sono nata sorridente e spero di morire sorridente».