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 2019  novembre 04 Lunedì calendario

Perché 7 detenuti su 10 tornano a delinquere

Cominciamo con una domanda: in Italia, il 70 per cento dei carcerati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Cosa non funziona visto che lo scopo della pena è proprio quello di riabilitare?

I numeri e i costi

Nelle 190 carceri italiane ci sono 60.552 detenuti che costano, incluse le spese per la sicurezza, 4.000 euro al mese a testa. Complessivamente il sistema penitenziario pesa sul bilancio dello Stato per 2,9 miliardi l’anno. In Europa solo Russia e Germania spendono più di noi. I condannati in via definitiva sono 41.103, che devono pagare le spese di giustizia e quelle per il loro mantenimento in carcere. Ma solo poco più del 2% salda il conto, gli altri i soldi non li hanno, e le richieste pendenti di carcerati che, una volta fuori, chiedono la cancellazione del debito sono oltre 4.300 l’anno. 

Cosa dice la legge

L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario, individua nel lavoro uno dei pilastri rieducativi, e stabilisce che deve essere assicurato, incentivato, remunerato. Vuol dire che durante la detenzione i condannati in grado di lavorare, e che lo desiderano, devono seguire corsi di formazione e svolgere con regolarità un mestiere che li aiuti a reinserirsi nella società. Con la retribuzione potranno così rimborsare lo Stato, aiutare un po’ la famiglia, e non trovarsi le tasche vuote a fine pena. La paga è fissata a due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi. Lo stanziamento dello Stato per le retribuzioni dei carcerati nel 2018 ha raggiunto i 110 milioni di euro, (erano 60 fino al 2016). Negli ultimi 2 anni sono aumentate anche le paghe, ferme dal 1994: più 80 per cento.

Quanti sono i detenuti che lavorano 

Nel 2018 i detenuti impiegati in un lavoro erano 17.614 (in calo del 4,3% in numeri assoluti rispetto al 2017). Di questi, il 25% lavora fra le 3 e le 4 ore al giorno, e a rotazione, ovvero un giorno si e due no. Si tratta di attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie e alla cucina, alla manutenzione ordinaria del fabbricato, lavanderia, spesa, cuochi e aiuto cuochi, oppure piantoni, scopini e scrivani. Anche la remunerazione individuale di conseguenza varia ed è difficilmente quantificabile, se non attraverso i parametri di riferimento: dai 150 euro al mese per uno scopino impiegato 3 ore al giorno, ai 650 euro per il cuoco che ne lavora 6. Dallo stipendio viene trattenuto il vitto: 3,60 euro al giorno. I detenuti che svolgono invece un’attività regolare sono soltanto 2.386 (il 3,9%). Lavorano in carcere per conto di ditte esterne, oppure alle dipendenze di società e cooperative, uscendo la mattina e rientrando la sera. Come avviene in tutta Europa, per chi assume carcerati, la legge prevede sgravi fiscali: i 4 milioni di euro a disposizione nel 2019 sono stati richiesti da 9 società. 

I risultati

In totale quindi circa il 29% svolge una mansione, il grosso una tantum, e fa mestieri difficilmente spendibili una volta scontata la pena. Gli altri sono tenuti per anni a giocare a carte o a guardare la tv, e non bastano le lodevoli, e pur indispensabili, attività culturali date in gestione alle cooperative o quelle del volontariato. Se si esclude il modello avanzato del carcere di Bollate, dove su 1.288 detenuti lavorano in 500, e il tasso di recidiva non supera il 18%, il risultato è un costo sociale incalcolabile. Le statistiche sono chiare: il 68,4% di chi non ha svolto nessuna attività torna a delinquere, il tasso si riduce all’1% per chi è stato inserito in un circuito produttivo. 

Il meccanismo paradossale

Il problema è che i 110 milioni stanziati dallo Stato per le retribuzioni non bastano a far lavorare tutti. E chi, pur di non stare a far niente è disponibile a lavorare anche gratis, non ne ha la possibilità, proprio perché in assenza di remunerazione, ogni impiego è considerato «lavoro forzato». Eppure affidare lavori di regolare manutenzione carceraria, per esempio, eviterebbe quel degrado che poi viene tamponato con appalti esterni, e sarebbe utile anche per ridurre il sovraffollamento per cui l’Italia paga multe all’Europa. Nelle nostre carceri ci sono 10.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, anche a causa di camerate o intere sezioni fuori uso per inagibilità o lavori in corso: al 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale. I casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia 24 dei 57 previsti, e in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile. 

I modelli più avanzati 

Le carceri francesi e tedesche non sono messe molto meglio delle nostre, però riescono a far lavorare rispettivamente quasi il 50 e il 65% dei detenuti. Sta di fatto che il tema dei soldi per le retribuzioni è comune in tutti i Paesi occidentali, ma in Olanda, Irlanda, Austria e alcuni Stati americani hanno affrontato la questione con un altro ragionamento: siccome devo far lavorare tutti, ma i soldi per pagarli non li ho, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale, dal quale trattiene le spese di giustizia e di mantenimento, e dà al detenuto la differenza. Dentro al carcere vengono organizzate attività che rendono la struttura indipendente (muratori, falegnami, sartoria) e stipulati accordi con aziende private. L’Amministrazione incassa il dovuto e retribuisce il detenuto applicando lo stesso meccanismo. Quasi tutti accettano il programma, e in cambio ottengono sconti di pena, più visite, permessi e un mestiere in tasca quando escono. Il risultato: recidive bassissime. In Italia si fa il contrario.

I lavori di pubblica utilità

Uno degli obiettivi della riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 è di incentivare i lavori di pubblica utilità presso i Comuni o altri enti pubblici. I detenuti ricevono un corso di formazione qualificante e dopo un primo periodo di attività volontaria e gratuita potranno ottenere un sussidio finanziato dalla Cassa Ammende. Ma i numeri sono ancora bassi: i detenuti coinvolti dai Comuni sono stati 4.500 di cui 1.000 a Roma. La Capitale li sta impiegando a rotazione per la manutenzione stradale, la pulizia del verde e il rifacimento delle strisce pedonali. Ma la maggior parte dei sindaci temono le «paure» dei loro cittadini, e così preferiscono lasciare strade, muri e giardini sporchi. 

La riforma che non parte

Oltre che incentivare il lavoro, per i condannati a pene lievi, è considerata necessaria anche la revisione dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la liberazione anticipata. Sono misure già adottate da tempo e con successo nel Nord Europa. Era quanto previsto sempre nel provvedimento di revisione dell’ordinamento penitenziario, ma il decreto attuativo è stato stoppato a ridosso delle elezioni del 4 marzo 2018 e da allora la riforma langue. In tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi. E la Consulta gli ha dato pure ragione.