La Stampa, 3 novembre 2019
Da "Anni di piombo e di tritolo" di Gianni Oliva (Mondadori)
Sono nato nel 1952, negli anni del terrorismo ero prima studente, poi insegnante di italiano e latino in un liceo. L’odore del tritolo non l’ho sentito, perché vivevo a Torino dove l’estremismo di destra era poca cosa, ma ricordo di essere stato a Milano la settimana dopo piazza Fontana: un’assemblea alla Statale, capelli lunghi e barbe «guevariste», arringhe senza pace: qualcuno urlava di «pericolo greco», qualcun altro evocava i partigiani del ’45, tutti volevano fare qualcosa e nessuno sapeva che cosa. Rabbia e paura. Fuori, polizia, sorveglianza, controlli. Un’atmosfera greve come il cielo di quel dicembre.
L’odore del piombo, invece, l’ho sentito perché Torino ha avuto 20 morti ammazzati in dieci anni e tanti «gambizzati» che camminano con il bastone da una vita. In mezzo c’ero anch’io: non tra quelli che sparavano, non tra quelli che lanciavano molotov, ma tra quelli che nei cortei dell’ultrasinistra scandivano «se vedi un punto nero, spara a vista, o è un carabiniere o è un fascista». Come tanti altri, più o meno estremisti senza una vera ragione: e non diverso da quelli che, sulla sponda opposta, scandivano «contro il comunismo, la gioventù si scaglia / boia chi molla, è il grido di battaglia». In quegli anni era molto più facile essere radicale che moderato: un insidioso «conformismo dell’anticonformismo» condizionava i comportamenti, le mode, i linguaggi, i pensieri.
Perché non sono andato oltre? Mi piacerebbe dire che l’ho fatto per scelta ragionata. Invece credo di non averlo fatto solo per paura: paura fisica dello scontro, delle conseguenze, di perdere le mie garanzie. In fondo, la paura è una grande protezione, assai più delle interdizioni culturali e morali. Il problema non è domandarsi se questo basta per sentirsi assolti o meno: il problema è ricostruire il semplicismo di quegli anni, la facilità con cui si è varcata la soglia tra la protesta e il crimine. Chi pensa ai terroristi come a personaggi pervenuti alla scelta delle armi dopo un percorso lacerante di approfondimento e di confronto, sbaglia: i meccanismi siano stati drammaticamente banali. Per commettere il male non è necessario essere cattivi: basta che qualcuno riesca a convincerti che il bene è male e la deriva si spalanca. Quando l’ideologia diventa la misura di tutte le cose, in suo nome tutto diventa potenzialmente lecito: l’ideologia è il miglior farmaco per anestetizzare la morale (o il miglior veleno per corromperla). «Non fa male credere. Fa molto male credere male», come canta Giorgio Gaber.
E allora? E allora dalla storia degli anni di piombo e di tritolo ci viene un insegnamento solo: mai ammiccare alla violenza, mai pensare a una legittimità sottintesa, mai tollerare. Indulgere significa spingere verso la deriva coloro che non sono protetti dalla paura e coloro (troppi) che cadono vittime dei loro crimini. Indulgenti, allora, siamo stati in tanti, più o meno inconsapevoli, chi aveva responsabilità alte e chi non ne aveva. «Non credo che chiunque da giovane abbia militato nella sinistra o nella destra extraparlamentare, anche se non ha mai avuto niente a che fare con il terrorismo, possa sentirsi completamente innocente per quel che accadde. Tutti. Me compreso», ha scritto Paolo Mieli. Sono le maglie sfrangiate dell’incoscienza collettiva a permettere il male. Quella stagione, lunga due decenni, va riepilogata e raccontata: non si tratta di proporre una verità inedita su un episodio o su un altro (sarebbe una verità fragile, come le tante pubblicazioni fondate su congetture e illazioni), bensì di rivolgersi a quanti di Piazza Fontana o di Aldo Moro sanno il destino tragico ma non ricordano i fatti e il loro contesto; e, insieme, di parlare a coloro (e sono ancora di più) che di quegli anni non sanno quasi nulla, perché nati dopo e formati in una scuola dove la storia antica è più in onore di quella contemporanea. L’idea di questo lavoro è nata in un’occasione precisa: nel 2012, quando ero preside del liceo classico Massimo D’Azeglio di Torino, mi è stato chiesto di mandare una delegazione di studenti alla commemorazione organizzata per i 35 anni dell’assassinio di Carlo Casalegno. Gli studenti sono andati ma prima hanno fatto una ricerca su Internet per sapere chi era Casalegno: era un nome che sentivano per la prima volta. Però quegli stessi studenti sapevano perfettamente chi erano Renato Curcio e Mara Cagol. Se una comunità ricorda i nomi dei carnefici e dimentica quelli delle vittime, vi è un corto circuito nella memoria collettiva: così si rischia di ribaltare i ruoli, di dimenticare ciò che realmente è accaduto. E la storia perde il suo senso. Questo libro è nato da lì. —