La Lettura, 3 novembre 2019
Suez, 1869. Il pianeta ora è globale
Secondo Wikipedia, la geopolitica è «una disciplina che studia le relazioni tra geografia fisica, geografia umana e azione politica». Molti (compreso chi qui scrive) considerano tale definizione obsoleta, o almeno largamente insufficiente: l’analisi politica, infatti, deve tenere conto di molti altri fattori decisivi tanto quanto la geografia, e spesso anche di più, come economia, demografia, armamenti, eredità storica, ideologie...
Vi sono però casi in cui l’analisi geopolitica ruota proprio intorno al perno della geografia, in cui geografia fisica, geografia umana e azione politica formano un unico viluppo. Il canale di Suez è uno di quei casi. Attorno alla possibilità di collegare per via navigabile il Mediterraneo e il mar Rosso si sono cristallizzate alcune delle rivalità più importanti di tutto il percorso storico dell’umanità. Per diciotto degli ultimi venti secoli, i traffici commerciali globali si sono svolti, essenzialmente, tra il Mediterraneo e l’Asia. Angus Maddison, autore di un classico sull’argomento, ha calcolato che, in quel lasso di tempo, circa la metà di tutto quel che veniva prodotto nel mondo lo era in Cina e in India; è normale quindi che le vie di transito tra quelle due aree fossero estremamente trafficate, e che i tentativi di renderle più rapide siano cominciati molto presto. Molto prima dei due millenni studiati da Maddison.
La storia di quel collegamento si perde nella notte dei tempi, quando la competizione tra potenze si svolgeva su aree regionali ristrette, ma non per questo meno importanti. Una di queste fu la Mezzaluna fertile, una delle «culle» della civiltà umana, dove si confrontarono per secoli Egizi, Persiani, Greci e Romani. La via navigabile tra Mediterraneo e Mar Rosso fu alternativamente aperta e chiusa al ritmo delle vicende storiche: tutte le potenze con interessi sia nel Mediterraneo che in Asia furono interessate ad aprirla, e al tempo stesso a chiuderla ai propri avversari. Una coazione a ripetere geopolitica, si potrebbe dire, che ha poi interessato arabi, ottomani, veneziani e, infine, le potenze moderne lanciate alla conquista del mondo intero, prime fra tutte Francia e Inghilterra.
Per più di venti secoli vicende politiche turbinose si sono aggrovigliate e sgrovigliate attorno a quella striscia di terra che univa l’Africa e l’Asia. L’inaugurazione del canale 150 anni fa, il 17 novembre 1869, rese quel groviglio incandescente, diventando il cuore della rivalità franco-britannica nel clima già arroventato dalla competizione coloniale in Africa. Gli inglesi invasero l’Egitto nel 1882, e si assicurarono una posizione chiave per il controllo di un impero che ormai, oltre all’India e all’Australia, si estendeva in Africa dal Cairo a Città del Capo: l’Egitto era ormai una doppia porta, e il canale diventava strategico per i movimenti economici e militari della Gran Bretagna.
Durante la Seconda guerra mondiale, si inserirono nella mischia anche gli Stati Uniti. La loro risoluta opposizione al colonialismo, per ragioni economiche e strategiche, contribuì ad accelerare l’indipendenza indiana, proclamata nel 1947. La perdita dell’India minò le fondamenta di tutto l’edificio imperiale britannico: come la Palestina (abbandonata in quello stesso 1947), il canale di Suez perse gran parte della sua importanza strategica. Londra controllava ancora Aden, l’Oman e il Golfo Persico e, in seguito ad accordi con Washington, le sarebbe spettato il petrolio iracheno e iraniano, mentre agli americani sarebbe toccato quello saudita. Da snodo geostrategico, il canale era diventato un’autostrada del petrolio. Ma il colpo di Stato della Cia a Teheran nel 1953, oltre alla democrazia iraniana, eliminò anche la tutela britannica del Paese, sostituita da quella americana.
L’intervento militare con cui, nel 1956, Londra e Parigi reagirono alla nazionalizzazione della Compagnia del canale da parte del governo egiziano fu l’ultimo disperato tentativo di salvare l’ordine coloniale. Stati Uniti e Unione Sovietica reagirono istantaneamente, costringendo britannici e francesi a un umiliante ritiro: Mosca lanciando roboanti (e implausibili) minacce nucleari; Washington, più concretamente, bloccando una richiesta britannica di aiuto al Fondo monetario internazionale e minacciando di vendere parte delle obbligazioni denominate in sterline nelle sue mani. «Suez» è diventata sinonimo dell’ultimo sussulto del colonialismo morente e della resa definitiva della Gran Bretagna di fronte alla supremazia marittima degli Stati Uniti.
Se il declino delle potenze europee ha ridimensionato la portata strategica globale del canale, non l’ha certamente eliminata; anzi, l’affollarsi di nuovi attori politici globali ne accresce l’importanza anno dopo anno. A maggior ragione in un’epoca come la nostra, in cui la Cina e l’India sembrano tornare a essere quello che furono nei primi diciotto secoli della nostra era.
Per gli europei, il canale di Suez resta l’arteria principale dei loro traffici con l’Asia. I cinesi vi fanno transitare ormai da alcuni anni le navi da guerra che accompagnano il loro sempre più vivace protagonismo economico. Gli indiani hanno recentemente cominciato a mandare «in visita» nel Mediterraneo parte della loro flotta militare per, recita il comunicato di New Delhi, «sottolineare la presenza pacifica e la solidarietà dell’India con Paesi amici e con gli stessi principi». I sauditi accelerarono le pressioni per rovesciare il governo di Mohamed Morsi in Egitto quando questi autorizzò navi da guerra iraniane a transitare per il canale, nel 2012. I russi sostengono Bashar el Assad in Siria per tornare a svolgere un ruolo non solo nel Mediterraneo, ma in tutto il Medio Oriente: le relazioni amichevoli con Turchia, Israele, Iran, Arabia Saudita e Qatar simultaneamente autorizzano a pensare che Suez vedrà una crescente frequentazione russa nel prossimo futuro. Gli americani sono in piena confusione strategica: a maggio, hanno spostato in gran fanfara la portaerei Abraham Lincoln dal Mediterraneo verso il Golfo per accrescere la pressione sull’Iran; a ottobre hanno annunciato il loro ritiro unilaterale dal Medio Oriente, per poi ricredersi qualche giorno dopo. Quale che sia la decisione (se una decisione è possibile), districarsi da quella regione sarà comunque tutt’altro che facile e scontato, e si può scommettere che le loro portaerei frequenteranno regolarmente il canale ancora a lungo.
Si aggiunga che, da Suez, transita il 12% degli scambi mondiali. A prima vista, sembrerebbe poca cosa, ma in una fase di continua diminuzione delle aspettative di crescita mondiale, l’importanza di quella via di transito, come di tutte le vie commerciali, aumenta in proporzione. Quando il canale fu chiuso, tra il 1967 e il 1975, si computò che ogni 10% di aumento nelle distanze percorse via mare da una merce avesse un’incidenza negativa del 5% sul volume del traffico totale; considerando che la circumnavigazione dell’Africa comporta un aumento del percorso del 43%, i calcoli sono presto fatti.
Il canale di Suez, dunque, è stato il cuore di alcune tra le più turbolente tempeste politiche della storia, ma anche un tramite per l’incontro, lo scambio e la fusione di esperienze umane diverse e lontane. La sua inaugurazione coincise con l’inizio della prima globalizzazione; la sua riapertura, nel 1975, con l’inizio della seconda. Due grandi epoche di sviluppo umano e di crescita della prosperità hanno transitato (anche) per le acque di quel canale.