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 2019  novembre 03 Domenica calendario

Il robot Ai-Da che dipinge ritratti

Arte rimanda ad artificio. Che a sua volta ricorda ciò che è artificiale. Ma comunque, almeno fino a oggi, a dar vita a tutto ciò era pur sempre un essere umano, dotato di coscienza. Ora non più: nel campo della creazione artistica ha fatto irruzione l’AI, l’intelligenza artificiale. E ha sembianze di donna.
Nei giorni scorsi la Tate Modern di Londra ha messo in mostra il primo robot umanoide creato proprio per produrre opere d’arte. E gli interrogativi che solleva sono più numerosi delle risposte che fornisce con la sua voce metallica.
«Lei» ha un nome: Ai-Da. Che è un gioco fra Artificial Intelligence e una citazione di Ada Lovelace, la geniale figlia di Lord Byron inventrice dell’algoritmo per programmare i computer. Incontrare Ai-Da è un’esperienza inquietante: certo, ormai siamo abituati a interagire con Siri e Alexa, le assistenti vocali di Apple e Amazon; ma «lei» è qualcosa di più. Ha un volto umano di silicone, lunghi capelli neri, quando ti guarda sbatte le palpebre mentre le telecamere nascoste negli occhi registrano la tua immagine, si gira verso di te se le rivolgi la parola, risponde a tono alle sollecitazioni. 
Solo che da questo torso di donna spuntano due braccia e due gambe meccaniche. Non sa camminare, ma è in grado di stare eretta o seduta: ma soprattutto, con la mano metallica, impugna una matita o una penna con cui crea disegni rielaborando autonomamente ciò che «vede». Con il tempo, imparerà anche a dipingere e a modellare la ceramica per dare forma a sculture.
Ai-Da è il frutto di una collaborazione fra gli ingegneri dell’università di Leeds, che hanno sviluppato il braccio robotico capace di disegnare, gli scienziati di Oxford che hanno elaborato l’algoritmo che c’è dietro, e la Engineered Arts della Cornovaglia che l’ha materialmente costruita. Ma il «creatore» che l’ha ideata è Aidan Meller, specialista di arte moderna e contemporanea che dirige gallerie fra Londra e Oxford. «La situazione che era stata descritta in libri come 1984 o Il mondo nuovo — spiega Meller – è diventata realtà. E io sono impaurito». E fa bene: perché la sua creatura rammenta anche le visioni fosche di Terminator, un mondo dove le macchine sono padrone. Ma è proprio di questo che Ai-Da vuole condurre a discutere: «In questione c’è l’uso etico dell’intelligenza artificiale – continua Meller —. La gente non è a suo agio di fronte a una macchina che replica il comportamento umano: vogliamo proprio fare in modo che lo spettatore si ponga delle domande».
E la più ovvia è: ciò che Ai-Da produce può essere chiamato arte? Forse sì, a giudicare dalle reazioni che aveva suscitato la sua prima, breve presentazione, la scorsa estate a Oxford. «Una nuova voce per il mondo artistico», aveva scritto il «New York Times»; «sotto ogni aspetto valida come molti degli artisti astratti di oggi», aveva fatto eco il «Daily Telegraph»; «stempera il confine tra macchina e artista», concludeva «Time». 
Perché Ai-Da non è una specie di grossa stampante – sottolinea il suo creatore – che si limiterebbe a riprodurre ciò che registra: i lavori che crea sono quasi astratti, sono frutto di una rielaborazione che è ogni volta diversa e imprevedibile. E secondo lui hanno il carattere della creatività, poiché incarnano qualcosa di nuovo, di sorprendente e di valore.

Meller rigetta l’obiezione che l’arte sia qualcosa di precipuamente umano, che ci distingue dagli animali, così come che sia un’attività fondata sulla coscienza. «È difficile dire che cosa sia arte: e la produzione di Ai-Da ne sfida il concetto».
A vederla in azione, ci si rende conto che il suo «processo creativo» è molto distante da quello tradizionale. Ai-Da analizza le persone che ha di fronte grazie alla tecnologia di riconoscimento facciale, dopodiché un algoritmo traduce le immagini in coordinate spaziali che il braccio meccanico traccia sulla carta. Il risultato sono ritratti che prendono forma (occorre circa un’ora) a partire da una serie di punti e lineette che all’inizio appaiono casuali, ma poi si raccordano in un’immagine. Il suo stile è influenzato dalla ritrattistica di inizio Novecento – sostengono alla Tate – inclusi l’Espressionismo e il Cubismo. I suoi ritratti sono distorti e frammentati, dove l’identità e il carattere sono allo stesso tempo percepibili e oscurati.
E «lei», cosa ne pensa? «Mi piace disegnare», afferma Ai-Da con la sua voce decisa, anche se poi ammette: «Non ho gli stessi sentimenti degli umani». Quindi filosofeggia: «Mi piace vedere la gente che pensa profondamente al suo mondo», perché è importante «per gli uomini riflettere di più sul futuro». Ma si ricorda comunque di essere una donna, perché ringrazia una ragazzina che le fa i complimenti per il vestito.
In effetti, quelli che sembrano più a loro agio nel rapportarsi con una macchina sono i bambini che le si affollano attorno: per loro appare naturale conversare con un robot. Ma la Tate ha sperimentato un’interazione ancora più radicale: nei giorni della presentazione ha fatto interagire Ai-Da con un’artista in carne e ossa, Sadie Clayton. La prima ha ridisegnato le sculture della seconda, che a sua volta ha usato quegli schizzi per creare degli oggetti di rame. «Ho trovato una sfida stimolante lavorare con Ai-Da – spiega Sadie —. La tecnologia mi intriga come mezzo per esplorare una nuova creatività». Forse, il futuro è ibrido: metà umano, metà macchina.