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 2019  novembre 02 Sabato calendario

Intervista a Emanuele Macaluso

Quando nel 1961 a Berlino fu tirato su il Muro, Emanuele Macaluso aveva meno di 40 anni. Era già un ascoltato dirigente comunista. Partecipe della battaglia ideologica che segnò le sorti dell’Europa. Fu chiamata Guerra fredda con i suoi blocchi contrapposti: Usa contro Urss, non una partita di football o di basket. Ma due differenti concezioni della vita. «Allora pensavamo che lo scontro fosse totale e che qualunque decisione dovesse essere assunta nella convinzione della superiorità del socialismo. Quel 1961 si arricchì di episodi emblematici: Gagarin in volo attorno alla terra e il suicidio di Hemingway. Come dire? Da un lato si dispiegava la massima potenza tecnologica nella conquista dello spazio; dall’altro il più osannato scrittore americano si dava la morte con un colpo di fucile. Le due cose non avevano nessuna connessione ma si potevano vivere come il confronto tra progresso e decadenza, tra vita e morte, tra cielo e inferno».

Il Muro di Berlino rappresentava questo spartiacque?
«Lo immaginavamo anche così. Nel giro di dieci anni, dal ’49 al ’59, due milioni e mezzo di tedeschi dell’Est erano emigrati a Ovest. Avremmo dovuto meditare su quella preferenza ma non lo facemmo. Ci accontentammo del brodo ideologico».
Togliatti lo servì caldo a tutto il partito.
«È vero, ma con realismo Togliatti vide l’inconciliabilità dei due mondi. Si era chiusa una guerra terribile. Il rischio era di riaprirne un’altra. Perché forte era la tentazione delle parti di annettersi l’altra metà del campo. Il Muro divenne così un modo per risolvere il problema. Storicamente anacronistico ma efficace vista la situazione geopolitica».
Il primo colpo di piccone è del 9 novembre 1989. Ricordi dov’eri quella sera?
«No, ma ricordo che il giorno dopo l’Unità titolò "Si è aperto il Muro di Berlino", con cautela non venne usata la parola crollo».
Ti sembrò eccessiva quella cautela?
«Detto oggi forse sì, ma allora c’era molta confusione e incertezza sul modo in cui le notizie affluivano».
Fosti sorpreso dalla caduta del Muro?
«Non lo fui. Certo, l’evento fu traumatico ma era già tutto iscritto in quello che era accaduto prima. Ti racconto un episodio. Nel 1973 presiedetti un’autorevole delegazione del Pci con la quale andammo nella Germania dell’Est».
Andaste perché?
«Era un viaggio di studio e di colloqui con i massimi dirigenti del partito tedesco. Non ero mai stato a Berlino e mi colpì quel Muro che sembrava la coda grigia e pesante di un dinosauro. Ma poi vidi una città per niente plumbea, a tratti perfino allegra e con un’aria totalmente diversa dalle città sovietiche. Poi ci furono gli incontri con i membri del partito. Ebbi un colloquio poco più che formale con Honecker. Ma la cosa interessante furono gli incontri con gli altri dirigenti».
Perché?
«Mi sembrarono dei sacerdoti della politica, asserragliati dentro convinzioni inscalfibili. Consideravano la divisione che c’era stata tra le due Germanie non come un fatto politico bensì l’effetto del destino che aveva contrapposto socialismo e capitalismo. Parlavano non di due Stati ma di due Nazioni. Colpiva la distanza dalla società civile che già agli inizi degli anni Settanta mostrava una qualche vitalità che quel gruppo dirigente non riusciva a comprendere né ad assecondare».
E questa fu la causa della caduta?
«No, ma fu in questo clima che si produsse il crollo. Le cause furono, come accade di solito, economiche. Il sistema sovietico non era più in grado di sopportare i costi del mantenimento dell’impero. Solo nella Ddr c’erano 400 mila soldati russi, un esercito armato e con un arsenale militare enorme. La popolazione era di 16 milioni di abitanti. Il prezzo economico fu pesantissimo. Oltretutto i paesi del Patto di Varsavia potevano contare sugli aiuti economici sovietici e quando vennero meno perché il modello della pianificazione economica aveva fallito, l’Europa orientale cominciò a disgregarsi».
In Urss c’era Gorbaciov.
«Con lui si ebbe l’ultimo tentativo per rimettere insieme i cocci dell’impero. Occorrevano riforme interne e liberarsi dal peso rappresentato dalla periferia di quell’impero che la stava trascinando a fondo. C’è la famosa frase che Gorbaciov pronuncia: "Loro non ci sopportano più e noi non sopportiamo più loro". Questa era la situazione alla vigilia del 1989».
Come reagì il Pci?
«Ci fu un aspro scontro nel partito, le cui origini risalivano alla morte di Enrico Berlinguer nel 1984».
Scontro tra chi?
«In un certo senso era un tutti contro tutti. In realtà furono due le figure di spicco che catalizzarono la vicenda, entrambe giovani e ambiziose: Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Dopo il funerale di Berlinguer ci fu quello che venne definito il "patto del garage". Tra le macchine parcheggiate alle Botteghe Oscure i due misero insieme una strategia per fare fuori Alessandro Natta designato a succedere a Berlinguer. Oltretutto, Natta non aveva nessuna voglia di ricoprire quell’incarico».
Cosa temeva?
«Natta si era ritirato dalla politica attiva. Ma proprio perché la sua figura era così defilata, poteva svolgere un ruolo di mediazione. Ma non fece in tempo a dispiegare il suo mandato. Un piccolo infarto lo mise fuori gioco».
Spingendolo a designare come successore Occhetto?
«Le cose andarono diversamente. Alcune federazioni locali ma importanti si pronunciarono a favore di un ricambio e puntarono, pur tra molti contrasti, suOcchetto, che fu eletto segretario nel luglio del 1988. Quindi a meno di un anno e mezzo dall’evento tedesco. Ora, io non credo che arrivassimo impreparati alla crisi del comunismo. Già Berlinguer aveva manifestato forti critiche nei riguardi del sistema sovietico. Ricordo scherzando, ma neppure tanto, mi disse: cosa vuoi che reggano questi sovietici. Non sanno neppure incartare le caramelle! Il partito non arrivò, se non in minima parte, impreparato alla crisi dell’89 e poi a quella del 1991, quando l’Unione Sovietica implose».
Fu una consapevolezza che si tradusse nelle scelte operate pochi giorni dopo alla Bolognina.
«Alla Bolognina, che era poi il luogo dove si stava tenendo una commemorazione partigiana, arrivò a sorpresa Occhetto e con un intervento di pochissimi minuti legittimò la caduta del Muro, sostenendo che il partito avrebbe dovuto intraprendere nuove strade. La parola d’ordine era "cambiamento". Furono poste le premesse per la fine del più grande partito comunista d’Europa».
Lo dici con qualche nostalgia?
«No, il cambiamento era nelle cose. Fu la brutalità dei modi inaccettabile.Venne convocato prima il comitato centrale e poi il congresso. Lo stesso Natta non avrebbe avuto niente in contrario. Ma lui, che era un personaggio schivo, si sentì pugnalato dai giovani che aveva protetto. Nel partito la critica verso l’Unione Sovietica era chiara. Natta, Pajetta, Ingrao, Bertinotti e altri si schierarono per il no al cambio del nome e del simbolo del Pci. E questo non avrebbe vinto se il gruppo riformista, formato da Napolitano, Bufalini, Lama e me, lo avesse appoggiato».
Quindi grazie a voi la mozione di Occhetto ebbe la meglio.
«Sì, ricordo che Occhetto pianse. Fu riconfermato segretario. Era il marzo del 1990. Quell’affermazione non aveva risolto il trauma che si stava consumando nel partito. Tanto è vero che nel gennaio del 1991 si tenne a Rimini l’ultimo e drammatico congresso del Pci».
Drammatico perché?
«Si risolse con la classica scissione. Occhetto, grazie questa volta all’appoggio di D’Alema, Veltroni, Fassino e altri giovani, prevalse nuovamente. Armando Cossutta, insieme a pochi altri, uscì dal partito dando vita a Rifondazione comunista. Questi furono i riflessi che si generarono da quel fatidico 9 novembre 1989».
Quell’anno, neanche a farlo apposta, uscì il libro di un giovane professore americano di origini giapponesi Francis Fukuyama che parlò di "fine della storia".
«Lessi quel libro quando uscì in traduzione italiana. Gli si attribuì un valore profetico che alla luce dei fatti successivi mi sembrò quanto meno azzardato. E cioè che il campo delle forze liberali e democratiche aveva sbaragliato quello delle forze comuniste. La verità è che tanto la caduta del Muro quanto la fine del regime sovietico innestarono sommovimenti che ancora oggi stentiamo a comprendere interamente».
Un’altra vistosa conseguenza fu la progressiva sparizione dei partiti che fino a quel momento erano stati protagonisti della storia italiana del dopoguerra.
«La caduta del Muro influenzò in Italia la politica successiva dei partiti. Ma fu "tangentopoli" a liquidare Psi e Dc e a innescare quel processo di smottamento che avrebbe portato alla fine della Prima repubblica».
Che ruolo assegni a Giovanni Paolo II nella fine del comunismo uscito dalla rivoluzione del 1917?
«Wojtyla svolse un ruolo importante, e fondamentale fu il suo protagonismo per tutto quanto accadde in Polonia. Ma l’Unione Sovietica implose per aver fallito economicamente. Per non essere stata in grado di capire l’era digitale che stava nascendo».
Con la caduta del Muro sembrava aprirsi una grande stagione di prosperità. Oggi assistiamo alla creazione di nuovi muri. Che cosa non ha funzionato?
«Ho 95 anni, un’età in cui avrei sperato che qualcosa di buono potesse uscire dal Novecento. E invece mi tocca vedere che negli Usa c’è Trump, Erdogan in Turchia dove, come in Polonia e in Ungheria, si mettono sotto controllo stampa e magistratura. Tutto quello che sta accadendo in Africa, con le sue migrazioni, e in Medioriente, dimostra che il mondo è una polveriera».
Ti aspettavi tutto questo?
«Francamente no. Certo, i processi di transizione sono lunghi e drammatici. Ma vedo anche in Europa molta frustrazione tra le fasce economiche più deboli. Pensa alla ex Ddr. Oggi è da lì che rinascono le accuse a quella che era la parte Ovest del Paese, di aver sfruttato e depredato le loro città, i loro Land. Lì il Muro era caduto. Ma è come se qualcuno stia facendo di tutto per ricostruirlo».